Dieci Anni

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    Dieci Anni



    83qhEx6



    10 anni come quelli che il nostro gioco compie quest'anno.
    Nel passato o nel futuro: la scelta è tua.
    In questa cornice dovrai scrivere una fanfiction ambientata o dieci anni nel passato o dieci anni nel futuro, che abbia come protagonista il tuo PG.
    Se immagini di descrivere il futuro del tuo personaggio: come lo vedi? Dove è arrivato o che cosa si è lasciato alle spalle? E' questo il futuro che pensi per lui muovendolo adesso, oppure la sua strada sarà totalmente diversa?
    E se invece volessi narrarci del suo passato: dov'era dieci anni fa? Cosa faceva? Chi aveva al suo fianco? Se dovesse cambiare qualcosa del suo passato, sarebbe lo stesso di oggi? Sarebbe dov'è oggi?
    A te la scelta, l'importante è che all'interno della fanfiction ricorra il numero dieci.
    E per favore non scrivere che tra dieci anni lo vedi come PG congelato.

    Regole della cornice:
    ➤ La storia deve essere ambientata O dieci anni nel passato O dieci anni nel futuro.
    ➤ Il protagonista deve essere il tuo PG (Studente/Giovane Adulto/Adulto).
    ➤ E' possibile inserire nella propria storia e muovere altri PG e PNG con coerenza e rispetto.
    ➤ La persona ed il tempo verbale sono a tua scelta.
    ➤ L'ambientazione deve essere sempre quella del nostro gioco.
    ➤ Deve ricorrere almeno una volta il numero dieci.

    Regole generali:
    ➤ Controlla ortografia e grammatica, rileggi il tuo lavoro anche più volte prima di postarlo, perché lavori grammaticalmente scorretti verranno esclusi a priori.
    ➤ E' possibile partecipare con tutti i propri PG, purché si scriva soltanto una fanfiction per ogni PG.
    ➤ Oltre ad essere grammaticalmente corretta e coerente con l'Ambientazione ed il Regolamento, la fanfiction deve avere un minimo di 700 parole per essere ritenuta valida e quindi ottenere i 10 5 p.e. in palio.
    ➤ Lo Staff si riserva di eliminare qualunque contenuto non sia ritenuto in linea con il Regolamento e l’Ambientazione. Se avete delle domande, siete invitati a postarle nell'apposito topic, in modo che le risposte siano disponibili a tutti.

    All'inizio della fanfiction ricordati di aggiungere il seguente specchietto:

    CODICE
    <b>Titolo:</b>
    <b>Autore:</b>
    <b>Personaggi:</b>


    La scadenza per postare è fissata all'11 Gennaio compreso.
    Buon divertimento!

    Edited by Bellamy Octavian Murray - 12/1/2022, 19:12
     
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    Titolo: Ci vuole metodo
    Autore: Alyssa Kane
    Personaggi: Alyssa e suo fratello Allan


    Five little monkeys jumping on the bed,
    One fell down and bumped his head


    Ma scimmiette nel sogno ce n'era solo una. Strappava dei fogli che poi lanciava in aria al ritmo della filastrocca.
    Allan voleva impedirglielo. Quei documenti erano importanti, gli servivano, ma per quanto cercasse di sottrarli alla scimmietta questa riusciva sempre a riappropriarsene, lasciandogli in mano solo brandelli di carta.

    Four little monkeys jumping on the bed,
    One fell down and bumped his head

    Sentiva la disperazione di non riuscire a opporsi all’inevitabile. La scimmietta cantava con voce allegra e intanto distruggeva con furia metodica le pagine. Il ragazzo si affannava nel tentativo di sottrargliele ma aumentava solo il ritmo degli strappi.
    Affannato aprì gli occhi tornando ad una realtà che rimase estranea per qualche secondo ancora.

    Si era addormentato sul divano, di nuovo. Gli aleggiava addosso l'odore del fritto del locale dove lavorava la sera e avevano cenato per l'ennesima volta ad hamburger e patatine, l'unica cosa che riuscisse a pensare a quell’ora della sera.
    Alyssa doveva aver spento la televisione, che l'annoiava sempre, e si era messa a giocare sul tappeto proprio davanti al divano.

    One little monkey jumping on the bed,
    She fell down and bumped her head

    Allan si strofinò il viso con le mani, senza rendersi pienamente conto che il rumore della carta lacerata continuava insieme alla filastrocca cantata dalla sorellina.

    Aly... è tardi, avresti dovuto andare a letto.

    La redarguì, troppo stanco per metterci reale impegno. Dopotutto non era una novità che la sorella facesse solo quello che le andava. Non si occupava dei lavoretti di casa che le aveva affidato, a scuola faceva solo i compiti che le piacevano e, ovviamente, non andava a letto da sola.
    Erano ormai più di due anni che era riuscito riprenderla con lui, nella casa che era stata dei genitori, e ancora navigava a vista senza sapere cosa stesse facendo per la metà del tempo e con il dubbio di star sbagliando per l’altra metà.
    Si alzò dal divano, indeciso e intontito dal sonno, decisamente in uno dei momenti in cui non sapeva come comunicare con la bambina. Le voleva bene, Alyssa era tutta la sua famiglia, ma…

    Aly! Non di nuovo!

    Con le lacrime agli occhi Allan si era finalmente reso conto di dove provenisse il rumore degli strappi. Si sedete sul tappeto a sua volta, ancor più svuotato di quanto si fosse svegliato poco prima.

    Dove l’hai trovata?

    Nel cassetto, sotto ai coltelli.

    Rispose pronta la bimba per nulla turbata, riducendo in striscioline più piccole quelle grossolane in cui aveva già diviso la foto. Dopo, quelle striscioline, sarebbero diventati dei quadrati e, infine, riprendendole in mano una ad una le avrebbe ridotte in minuscole palline di carta. Con metodo, con calma, fino a che della fotografia non sarebbe rimasto distinguibile neppure un dettaglio.
    Allan passò l’indice in una carezza triste sui lineamenti di un viso mutilato, dove un occhio chiaro sorrideva ancora verso l’obbiettivo. Tutto ciò che rimaneva del viso di sua madre.
    Aveva ritratto loro quattro, quella foto. La mamma, Noah, una piccola Alyssa di neanche due anni e lui… una delle ultime che si erano scattati prima che Noah, il compagno della mamma, sparisse. Una delle ultime ancora esistenti in generale.

    La prima mattina che si era alzato, dopo che finalmente aveva portato a casa Alyssa, era stato un trauma.
    Nella notte la bambina aveva smontato tutte le cornici, raccolto tutte le foto che era riuscita a trovare disseminate per la casa e le aveva distrutte. Metodicamente, lentamente.
    Quando la sveglia era suonata, l’aveva trovata ancora intenta nella sua opera di epurazione.
    Non aveva rotto neppure un vetro. Ogni cornice era stata rimessa in ordine seppure con il quadro vuoto, mentre il tavolo della cucina dove era intenta alla sua opera era disseminato di carte ridotte a brandelli.
    Allan ne era rimasto talmente sconvolto da non riuscire ad arrabbiarsi. Alyssa non aveva saputo, o non aveva voluto, spiegargli il motivo delle sue azioni.

    La parte importante c’è ancora.

    Gli aveva assicurato con un sorriso dolcissimo, allungandogli l’unica figura che avesse ritagliato via prima di ridurre a nulla il resto: lui. Tantissime immagini di Allan, neonato, bambino o ragazzino che fosse era stato riconosciuto, selezionato e separato dal resto della famiglia, poi distrutta.
    Quando la stessa sorte era toccata all’album di famiglia si era arrabbiato moltissimo e l’aveva sgridata. L’aveva messa in punizione quando era riuscita trovare la scatola con le foto più vecchie che teneva sotto il letto, non era servito cercare di metterle al riparo in posti per la bambina irraggiungibili. Non sapeva spiegarsi come fosse riuscita a tirar giù l’album che aveva nascosto sopra l’armadio, né come in quei due anni avesse finito per scovare ogni nascondiglio improbabile, irraggiungibile o banale che fosse.
    Perfino la fotografia che teneva nell’armadietto al lavoro era andata persa allo stesso modo, lasciando solamente alcune palline di carta sul pavimento degli spogliatoi. E quel giorno Alyssa neanche c’era stata alla tavola calda.

    Perché fai così Aly? Oramai hai dieci anni, non sei più una bambina…

    Passò da accarezzare i resti della foto ai capelli della sorella. Quel cespuglio di ricci che tanto la faceva somigliare all’uomo scomparso, di cui la bimba distruggeva ogni traccia da due anni.
    Legalmente, avevano scoperto allora, Noah non esisteva… e presto non ne sarebbe rimasta neppure una fotografia a testimoniarne il passaggio.

    Nove anni!

    Lo corresse la voce infantile, intenta nel gioco insensato di ridurre a palline ogni piccolo quadrato colorato.

    Nove anni.

    Ripeté il ragazzo con una tale tristezza nella voce che la bambina bruna alzò gli occhi. Lo guardò preoccupata per qualche secondo per poi sorridere e porgergli un quadrato molto più grande degli altri.

    Non preoccuparti. La parte importante è qui.

    Gli assicurò mostrandogli l’unica porzione di ritratto che aveva giudicato di dover salvare: un sorridente Allan tredicenne. Si alzò sulle ginocchia, avvicinandosi al fratello abbastanza per mettergli le braccia al collo.

    Non potevo andare a letto – spiegò con tutta l’innocenza del mondo, come se il problema fosse ancora quello – non riesco a dormire se non ci sei tu.

    Stanco, abbattuto e spaesato com’era in quel ruolo che non avrebbe dovuto competergli, il ragazzo strinse a sé la sorellina.

    Va bene, andiamo a letto.

    Acconsentì.
    Alyssa gli scoccò un bacio sulla guancia e scattò in piedi come una molla, allegra e apparentemente felice, anticipandolo verso la camera da letto.
    Con un sospiro Allan si alzò e la seguì.
     
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    Titolo: 10 Meraviglie
    Autore: Claire E. Wilson
    Personaggi: Claire E. Wilson, Amalia Harp, Myrtle Snow (PNG).




    L’isola di Slør sembrava parlarle. L’isola circondata da rovi ed acqua per tener lontani chi nei secoli aveva perpetuato atrocità contro la comunità magica. Salem e l’intera contea era cosparsa dalle ceneri di streghe, per la maggior parte d’innocenti arse vive al rogo nei tempi più bui della storia magica e non-magica. L’isola del Velo, coperta da un’eterea ed eterna nebbia e cancellata dalle mappe dei No-Mag, aveva offerto rifugio per ogni strega in cerca d’asilo. Un percorso dentro se stessi per ritrovarsi e sotto la ferrea guida delle Shaowin percorrere i primi passi verso il futuro. Il Villaggio era cambiato tanto da quei anni difficili e si respirava un’aria diversa, forse più distesa. Comunità rivali che avevano deciso d’isolarsi per non entrare più in conflitto. Eppure nel cuore dell’isola, lì dove sorgevano i palazzi e le sale per i riti nulla sembrava mutato da quando Salem era bersagliata dai No-Mag. Un rispetto per le tradizioni, un modo per onorare chi non aveva avuto la possibilità di vivere la propria vita.
    La leggera veste indossata dalla Wilson quasi brillava sotto ai raggi che filtravano dal cielo uggioso. Il grano della chioma, lasciata sciolta fino a sfiorare le scapole, risplendeva al tocco con i fili dorati. Baciata dalla luce, l’incarnato alabastro quasi risaltava percorrendo quei lineamenti appena accennati, eterei. Come una ninfa, rimaneva lì con la pelle nuda a contatto con la Madre. Le gambe solleticate dalla coltre di foglie della foresta. Pochi steli di fresca erba riuscivano ad emergere dal tappeto di foglie, ribellandosi alla loro morsa. La rugiada le bagnava la pelle, facendola quasi rabbrividire come se qualcuno le avesse improvvisamente poggiato le umide labbra sulla spalla in quel dolce ed inaspettato gesto. Cullata dalla Madre e rimanendo in ascolto ai suoi richiami, aveva perso di vista la clessidra.

    Chi sarò tra 10 anni?

    Capitava spesso che la giovane Wilson, diplomatasi da Ilvermorny da poco più di due anni, finisse per perdere contatto con la terra. I sensi inebriati dal richiamo della foresta. Passava così tante ore in meditazione da dimenticare tutto il resto. Perché solo con l’erba che le solleticava la nuda pelle, il vento che le accarezzava il capo ed il sole che le baciava il viso, riusciva a sentirsi davvero in pace con sé stessa. Svuotata di ogni pensiero, o preoccupazione. Era già passato un anno da quando si era unita alle Sorelle del Velo ed in quei momenti pensava più che mai che fosse quello il suo posto. Non desiderava essere da nessun’altra parte.

    Sapevo di trovarti qui, Claire.

    Quell’Incanto s’infranse. Le parole della Sorella del Velo la distolsero dalla quiete interiore, che riusciva a percepire solo con la meditazione. Dopo aver passato anni inquieti sentiva di meritare un po' di pace. Le palpebre si aprirono per soffermare lo sguardo sulla donna albina. Alta, bella ed autorevole. Così giovane e già investita dall’autorità di Magister. Non fu un’interruzione sgradevole, anche perché si aspettava prima o poi di essere richiamata all’ordine. Si era allontanata dal villaggio per troppo tempo.

    Lo dirai alla Shaowin?

    Certo che no!

    Dovresti.
    Ora sei Magister, Amalia. Hai delle responsabilità.


    Sai benissimo che a Myrtle Snow nulla sfugge, prima o poi verrà a saperlo.
    E tu dovresti essere ad accogliere le nuove adepte.
    Hai dimenticato? Oggi si terrà la Cerimonia del Velo.




    Andiamo?

    Sentiva il sapore ferroso del sangue che le riempiva la bocca. I denti avevano lacerato il labbro inferiore, maledicendo se stessa per essersi messa di nuovo nei guai. Poteva sempre contare sulla Harp. Afferrò la sua mano. Forte, sicura e calda. Una ottima guida. Non aveva dubbi sul futuro di Amalia, forse tra 10 anni sarebbe diventata la guida delle streghe di Salem.

    [ … ]



    Il Villaggio arroccato sulle coste dell’isola era un tripudio di colori, profumi e suoni. Il pane appena sfornato e messo a raffreddare in ceste piene di erbe aromatiche. Meravigliose ginestre raccolte quel mattino sul monte scarlatto. Il canto dei bardi che accoglievano le spaventate e confuse adepte. Slør sorgeva come rifugio per chiunque desiderasse vivere in simbiosi con la magia della natura. Molte famiglie di maghi e streghe avevano messo radici accontentandosi di una vita umile e fatta di sacrifici, senza mai abusare della magia e rendendo onore ai frutti della terra. Ampi campi di grano sorgevano appena fuori dal villaggio, irrigati dalle acque del lago. La montagna rossa in lontananza illuminava nelle notti più buie. La barriera di rovi che teneva lontano qualsiasi No-Mag così incauto da addentrarsi in quelle terre sacre.
    Lì dove la veste lasciava spazio al candore della pelle, un pendente smeraldino la identificava come Adepta ad una delle virtù della Magia e Stregoneria. Il gioiello magico risplendeva sotto ai tenui raggi del sole, che filtravano appena in quella uggiosa mattinata. Davanti a lei una decina di giovani streghe provenienti da famiglie dell’intera contea. Scure cappe e sguardo confuso. Smarrite in un posto che fino a poco prima non sapevano che esistesse.

    Vi do il Benvenuto alla Congrega del Velo!
    Sono Claire Wilson, Sorella del Velo.


    Fece risuonare la voce grazie all’aiuto della bacchetta. In modo da essere sicura che il messaggio arrivasse a tutte le novizie.

    A breve si terrà la Cerimonia del Velo!
    Sarete sottoposte al giudizio delle Magister, le saggie della nostra comunità, e verrete inserite verso una dei cammini del Velo. Ognuna di voi è devota ad una delle virtù delle streghe di Salem ed oggi scoprirete a quale di esse siete più affini.


    Si sollevò un brusio tra le novizie. Alcune si guardarono confuse, altre iniziarono a parlare tra loro. Nessuna era davvero pronta ad intraprendere un sentiero così complesso. Una gerarchia improntata sulla tradizione ed il rispetto della natura.

    Imparerete ad usare la magia solo quando è necessaria, senza mai abusarne. Sarete condotte verso la strada della meditazione ed imparerete a vivere come le nostre ave.
    Conoscerete la magia nella sua vera essenza ed imparerete a rispettarla, come farete con voi stesse.


    Il brusio generale si placò, forse rasserenato dalle parole della Wilson. Non sarebbero state lasciate sole. Proprio come Amalia l’aveva presa per mano, così avrebbe fatto con le novizie. Mentre conduceva le giovani streghe verso la Sala centrale, nel cuore dell’isola, si chiese passati 10 anni cosa sarebbe rimasto della Congrega del Velo.

    [ … ]



    Il banchetto per le novizie si era appena concluso con lo scattare dell’ultima ora del giorno. Le giovani streghe erano state accompagnate nei loro alloggi, ma nonostante fosse notte fonda la giornata per la Wilson non era ancora conclusa. Era stata convocata da Myrtle Snow, la Shaowin a capo della Congrega. Era una donna bizzarra, con la sua chioma leonina e vistose rughe che le solcavano il pallido viso. Eppure sembrava custodire lo spirito di una undicenne in quel corpo che aveva già vissuto tante primavere. Non sembrava affatto appesantita dallo scorrere del tempo e l’atteggiamento gioviale della rossa l’aveva colpita fin da subito. Eppure sapeva essere saggia ed intransigente, quando serviva.
    Per questo esitava nel bussare alla porta della Snow. Un rudere isolato nella foresta, ben distante dalla Sala centrale ed il Villaggio. Quando le nocche colpirono per tre volte la porta in legno, quasi temette di farla cadere a terra. L’intera lastra lignea sembrava tremare, lasciando ricadere un bel po' di polvere e terra.

    Avanti, Claire. Ti aspettavo.

    Shaowin Myrtle, mi dispiace averla delusa.

    Accomodati, mia cara!

    Entrata nel capanno, da cui pendevano erbe aromatiche e teschi di selvaggina, si accomodò come una discola che aveva appena infranto le regole. Mani congiunte sul grembo, testa china e schiena dritta. Evitava d’incrociare lo sguardo della potente strega. Soffermò lo sguardo acquamarina sulla semplicità di quell’arredamento e le fessure nel legno che lasciavano entrare gelidi spifferi in pieno inverno. Si chiese come mai la Shaowin, l’autorità più eminente della Congrega, vivesse in un capanno così umile e fatiscente.

    L’essenziale è invisibile agli occhi.

    Lo so.

    Allora perché guardi con così tanto sconcerto la mia umile dimora?

    La Wilson sprofondò nell’imbarazzo. Sollevò il capo, incrociando l’ermetico sguardo della strega. Le labbra si schiusero per replicare, ma si accorse di non avere argomenti da ribattere. L’impietosa giovinezza che comandava il corpo ancor prima di elaborare i pensieri. Le labbra si chiusero, distendendosi sullo schienale della sedia, e le sfuggì un sospiro.

    Le porgo le mie scuse, Myrtle.

    Non importa. Desidero metterti alla prova.
    Ormai sei qui con noi da un anno! E ne hai imparate di cose. Al prossimo plenilunio affronterai le 10 Meraviglie.


    Ma… ma… sa benissimo che non ne sono ancora in grado!

    Pigolò.

    Credo sia giunto il momento che tu prenda consapevolezza dei tuoi limiti.
    Come t’immagini tra 10 anni? Che strega desideri diventare?


    Non lo so.

    La risposta a tutto. Nonostante avesse trascorso già un anno insieme alle Sorelle del Velo non aveva ancora capito quale fosse la sua strada. Era distratta da qualcosa, forse da qualcuno. Un pensiero che ricorreva ogni qualvolta si ritrovava a da sola con sé stessa. Utilizzava la meditazione come scusa per fuggire da se stessa, e da ciò che l’attendeva fuori.

    Forse è giunto il momento di smetterla di scappare.

    10 anni nel passato!

    Ho deciso di narrare parte del percorso formativo di Claire alla Congrega del Velo. Nel periodo tra il 2021-2023 ospite di Myrtle Snow nell’isola del Velo a Salem.
    I fatti narrati risalgono al 2022, durante il secondo anno del Noviziato tra le Sorelle del Velo. Sono anni tormentati, sia per vicissitudini personali e sia per l’incapacità di trovare la propria strada dopo il diploma. Sono anche anni di forte crescita personale per la PG.

    Le 10 Meraviglie è un rituale in cui la Strega viene sottoposta a dieci diverse prove in cui esercitare i propri poteri: Telekinesis, Translatio, Concilium, Transmutatio, Affinitas, Pyrokinesis, Viridis vitae, Descensum, Vitalum Vitalis e De divinatione.
    Solo una strega destinata a diventare Shaowin è capace di superare tutte le prove. Ma può essere un modo per mettere alla prova le adepte e scoprire qual è la loro strada. Claire nel 2022 fallisce la prova, mentre l’anno seguente riesce ad eccellere in sei prove su dieci.

    Il numero 10 è ricorrente nella narrazione come richiesto.

    Per ulteriori informazioni sulla Congrega del Velo consultare le schede di Claire e di Amalia.
     
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    una Galassia lontana lontana...

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    Titolo: L'ultimo giorno
    Autore: Hector Knight
    Personaggi: Hector Knight, Andromaca White, i fratelli Auror Phoebe e Damon Arryn (*)

    [L'ultimo giorno]



    Ragazzo ci pensi tu a redigere il resoconto per Potter? Lo vuole sulla scrivania entro le dieci!

    La voce decisa e stentorea di Damon Arryn fece storcere la bocca ad Hector.
    Annuì comunque, sorridendo al veterano.
    Da quando qualche anno prima era entrato in Accademia e poi nel corpo Auror, Hector Knight era diventato la sua ombra, come Andromaca era diventata quella di sua sorella Phoebe. I due fratelli erano già avanti con l'età e tra poco avrebbero raggiunto la meritata pensione, ma Potter li aveva convinti a rimanere per formare le giovani leve, fresche di accademia. Lui, Andromaca, Aiden e Artemis erano diventati inseparabili da quando avevano avuto l'onore di essere ammessi nel corpo Auror, ma per le missioni più importanti erano affidati ad Auror più esperi e capaci di loro.
    Gli Arryn erano quelli più gettonati, non solo per la bravura più volte dimostrata sul campo, ma anche per l'estremo senso dell'onore e la gentilezza che li contraddistingueva. Molti dei veterani con gli anni tendevano a irrigidirsi, frustrati a volte dalla cattiva paga, altre dalle critiche dell'opinione pubblica e della Gazzetta del Profeta, altre ancora dagli insuccessi contro la Spirale.
    Hector negli anni passati ad Hogwarts non avrebbe mai immaginato di diventare Auror. Il Corvonero era fin troppo dedito allo studio e preferiva battere un avversario con la testa piuttosto che con la bacchetta. Ma si era lasciato trasportare dalla passione di Andromaca e dall'amore per lei, scoprendo un lato di sè votato invece al bene della comunità che lo gratificava molto di più della carriera diplomatica che suo padre avrebbe voluto per lui.

    Ci penso io, Damon. E' il minimo visto quello che è successo là fuori...

    Infatti... il tono dell'uomo sempre scherzoso era venato tuttavia di velato rimprovero.

    Lo sai che non sono molto portato negli scontri

    Già! convenne con lui l'uomo, fissandolo con le sue iridi blu profonde e intelligenti, senza aggiungere altro ed attendendo una risposta da lui.

    Hector sospirò sedendosi di fronte a lui, dall'altra parte della scrivania e scrutandolo a sua volta.

    Dove ho sbagliato stavolta? chiese con tono di sconfitta.

    Andromaca fu l'unica parola che l'uomo pronunciò Non puoi permetterti che ciò che provi per lei ti distragga dal tuo lavoro. Oggi c'eravamo io e Phoebe, ma se non ci fossimo stati? Se ci fossero stati civili? Puoi giocare con la tua vita, se vuoi Hector, ma non con quella della popolazione.

    Sospirò.
    La ramanzina del vecchio Auror fu interrotta dall'ingresso di Phoebe Arryn, sorella di Damon, Auror e tutor di Andromaca.
    Le due donne ridacchiavano, come facevano sempre quando in missione riuscivano meglio degli "uomini"! Era accaduto anche in quel frangente. Il sopralluogo si era trasformato prima in una colluttazione e poi in un inseguimento. Andromaca, come spesso accadeva in quei frangenti, era stata più veloce di lui.

    Sia nello scontro che nell'inseguimento... convenne tra sè il giovane Auror.

    Quello che lei non sapeva era che Hector aveva deliberatamente coperto le spalle alla compagna, contro l'ordine di Damon che lo avrebbe voluto dedicarsi al secondo uomo, nascosto nella bettola che era stata indicata loro come punto di ritrovo di membri della Spirale. Ne avevano alla fine catturato uno - o meglio Andromaca l'aveva fatto - ma l'altro era sfuggito perchè Knight non era stato abbastanza veloce da prenderlo. Distratto dal proteggere Andromaca, in pratica lo aveva lasciato scappare, agevolandogli la fuga.
    Il rimprovero di Arryn era giusto e doveroso. Lo sapeva. Ma d'altronde non avrebbe potuto mai abbandonare Andromaca al suo destino.
    In lui quelle due spinte agivano con uguale forza dentro la sua anima, ma una parte di lui era consapevole che la ragazza avrebbe avuto sempre la precedenza ed in questo non poteva dar torto a Damon.
    Doveva rifletterci e bene, perchè il ruolo che aveva scelto di ricoprire all'interno della comunità magica richiedeva invece altro: l'interesse privato non poteva mai prevalere su quello pubblico.
    Sopratutto se si trattava della vita della gente.

    Ed anche oggi ci batterete domani! la voce squillante ed allegra di Andromaca annunciò il loro trionfante ingresso in ufficio, mentre anche Phoebe Arryn seppur meno esuberante della giovane Auror sorrideva ironicamente all'indirizzo del fratello. Vi lasciamo alle vostre scartoffie... vi ricordo che, come da accordi, tocca a voi redigere anche la nostra di relazione! Potter la vuole per le dieci.

    Andromaca stampò un bacio sulla guancia di Hector, posando un paio di pergamene davanti a lui, prima di allontanarsi con Phoebe Arryn. Gli occhi scuri di Knight la seguirono con un sorriso ebete stampato in volto.

    Sei impossibile! Damon lo rimbrottò ma con tono gentile Tutte le mie parole finiranno al vento, lo so...

    Hector si alzò dalla scrivania di Damon per dirigersi verso la sua. Muovendo con un tocco elegante di bacchetta nell'aria, due piume e le pergamene si distribuirono davanti a lui, mentre iniziavano a vergare fiumi di parole per descrivere quanto era accaduto loro.

    Ti prometto che non saranno parole sprecate. Ho molto su cui riflettere. Grazie Damon, come sempre.

    Il tono caldo e suadente di Hector fece sorridere stavolta il vecchio Auror che lo guardò amorevolmente, mentre lo osservava tornare a testa china immergendosi nelle due relazioni.
    Aveva talento e Arryn lo sapeva, lo aveva sempre detto ai suoi superiori, sperava veramente che i sentimenti di Knight non gli sarebbero stati d'intralcio nel fare carriera in quel posto.
    Lui si era dedicato ad insegnargli quasi tutto, mancava veramente poco ormai.
    Sarebbero stati una bella coppia lui e Andromaca, equilibrati, si compensavano. Dove lui aveva ingegno, lei aveva prontezza, dove lui intuito, lei agilità.
    Si accomodò contro lo schienale, le mani dietro la nuca e continuò ad osservare i suo pupillo.

    Non sapevano, nè Damon, nè Hector che quello sarebbe stato l'ultimo giorno che avrebbero passato in ufficio insieme.

    (*) Sono gli stessi della role qui. Mi piaceva rendergli omaggio degnamente visto che erano stati il mentori di Hector e Andromaca.
    Ovviamente ambientata 10 anni nel passato ;)


    Edited by Hector Knight - 8/1/2022, 11:59
     
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    Fuoco VII Anno
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    Titolo: Ricordi
    Autore: Lily Anne Hale
    Personaggi: Lily Anne Hale, Dominil Weston, Charles Hale (padre), Ines Austen (Zia), Maurice Leroy (zio)

    Non ci aveva sperato più, arrivati alle diciotto del giorno della Vigilia, che sarebbe riuscita a tornare a casa in tempo per Natale.
    Seduta a terra ai piedi di un alto scaffale dell'archivio, circondata da fascicoli con rapporti di missioni risalenti all'epoca degli Orcrux di Voldemort, alla vista del folletto che aveva fatto irruzione nella stanza comunicandole che, non grazie a lei, il report che stavano cercando era stato trovato da almeno un'ora, il suo primo pensiero era stato che si trattasse di un'allucinazione.
    Il lavoro, se così poteva chiamarlo, nell'ultimo periodo l'aveva assorbita probabilmente più di quanto il suo fisico riuscisse a gestire, e sebbene fosse più volte arrivata al punto di dichiararsi totalmente non idonea alle mansioni assegnate e darsi alla vendita ambulante di prodotti per l'igiene personale, aveva giurato a sé stessa che piuttosto che dare a quel pitocco di Bonci la soddisfazione di vederla fallire, sarebbe morta di stenti.
    Era più di un mese ormai che dormiva quattro ore a notte, ne lavorava dieci, a volte anche dodici, e sopportava ogni forma di maltrattamento psicologico che il responsabile di reparto fosse in grado di concepire. Solo la settimana prima, l'aveva messa a riorganizzare, in ordine cronologico -e quindi di codice di archiviazione- il registro dei nuovi tesori acquisiti dalla Gringott negli ultimi tre anni, solo per scoprire, sei ore più tardi, che si trattava di tesori che erano già stati catalogati, distribuiti tra le varie sedi e in buona parte anche già venduti a terzi.
    Alla notizia, dunque, che nessuno si era degnato di avvisarla prima che il rapporto che stavano cercando dalle prime ore di quella mattina era stato già trovato da tempo, non si scompose più di tanto, limitandosi a nascondere un'occhiata di puro odio verso il folletto dietro a un sospiro di finto sollievo.

    Puoi andare. Dopodomani, puntuale.

    Era il suo modo per dire che l'indomani avrebbe avuto la giornata libera. La scontrosa creatura le voltò le spalle senza aggiungere altro.

    Buon Natale anche a lei.

    Aveva mormorato Lily, poco prima di realizzare che, finalmente, di lì a poco, sarebbe tornata a Casa.
    ---

    Suo padre viveva ancora nella casetta di Bristol che avevano acquistato dieci anni prima, quando a causa dell'espulsione di Lily dall'accademia di Beauxbatons erano tornati a vivere in Inghilterra, e nonostante lei ci avesse infondo passato poco tempo, tra i soggiorni ad Amestris e quelli alla LUMOS, rivederla adesso, con indosso il suo vestito migliore fatto di luci e decorazioni natalizie, le diede la stessa stretta al cuore che le avrebbe dato fare ritorno alla casa d'infanzia.
    Non sapeva se quel sentimento improvviso d'affetto fosse dovuto effettivamente alla nostalgia di casa, al fatto che fosse terribilmente stanca o a una concomitanze delle due cose, fatto stava che, arrivata con una Smaterializzazione davanti al vialetto, si affrettò a percorrerlo arrivando davanti alla porta quasi di corsa.
    Si fermò sul pianerottolo che aveva già un gran sorriso stampato sul viso, la porta era ancora chiusa, le finestre sigillate e le pareti spesse, eppure inalando aria in un profondo respiro, le parve di riuscire a sentire il profumo dell'arrosto che finiva di glassare al forno, l'odore di spezie in infusione nel vino caldo, il calore del fuoco nel camino che scoppiettava aggiungendosi alle voci familiari di suo padre e Maurice che, poteva immaginarli, già discutevano delle ultime decisioni prese dal Ministero in merito a questo o quell'argomento.
    Per molto, troppo tempo, Lily non era stata in grado di comprendere cosa fosse la Magia del Natale. Aveva passato l'intera adolescenza arrabbiata col mondo, e con mondo, intendeva precisamente suo padre. Lo aveva egoisticamente ritenuto responsabile del suo carattere difficile, l'aveva incolpato della morte della madre, perchè non era stato abbastanza da impedirle di unirsi a quella battaglia, perchè non era stato in grado di darle l'amore di entrambi, perchè aveva continuato a soffrire togliendo a lei le attenzioni che avrebbe dovuto ricevere. Lei, lei, lei. Non le era mai bastato quello che aveva fatto, era stato sempre troppo poco, ma la verità era che era lei ad esser stata cieca.
    C'erano voluti anni prima che arrivasse a capire che prima di essere genitore, suo padre era un uomo, che era esistito prima di lei e continuava a esistere indipendentemente da lei, e che proprio come ogni essere umano doveva conciliare diverse esistenze in un'unica vita. Era un padre, un collega, un marito, un amico, ed era stato per ognuno il meglio che aveva potuto, e da qui a comprendere che quella che non aveva dato abbastanza era stata lei, il passo era stato dolorosamente breve.
    Era stato necessario l'intervento duro di Dominil per farglielo capire, che aveva avuto il coraggio di dirle dritto in faccia quanto poco meritasse la fortuna di aver avuto una madre e un padre così, senza timore alcuno di ferirla.
    In piedi sullo zerbino, gli occhi fissi sull'enorme ghirlanda che addobbava la porta, per un attimo pensò a tutti i giorni di Natale che aveva consapevolmente reso difficili perchè vedeva serenità negli occhi degli altri e riteneva che meritassero invece di condividere il malcontento con lei, e provò vergogna e rimorso, due sentimenti che la spinsero ad afferrare il batacchio della porta con ancora maggior urgenza di riabbracciare la sua famiglia.
    Avrebbe potuto entrare direttamente in casa, ma non aveva detto a nessuno che alla fine era riuscita a liberarsi ed era elettrizzata all'idea della faccia che avrebbero fatto vedendola comparire sulla soglia di casa, quindi bussò.
    Furono secondi interminabili, temette che il suo bussare si fosse smarrito tra la cascata di parole che affollavano la casa, ma proprio mentre stava per afferrare di nuovo il batacchio, sentì dei passi oltre la porta che si aprì, e il ricordo della sorpresa che lesse sul volto di suo padre quando realizzò chi aveva davanti le sarebbe bastato a rendere felici centinaia di altri Natali.

    Lily!! C'è Lily!!

    Aveva esclamato, voltandosi per un attimo ad annunciarla al resto degli ospiti, portandosi poi entrambe le mani al petto come se avesse avuto paura che il cuore potesse fuggire via. La prese tra le braccia e la strinse.

    In carne e ossa

    Rispose lei, lasciandosi abbracciare

    ...rotte se continui a stringere così, papà!

    Aggiunse poi, perchè aveva imparato ad ascoltarlo l'amore che provava per suo padre, ma dimostrarlo con troppe effusioni, quello era un altro discorso.

    Ho fatto fuori quello schiavista di un folletto. Ho cercato di fare in fretta, spero di essere in tempo per la cena.

    Sciolto l'abbraccio, Charles le aveva lanciato un'occhiata dubbiosa, quindi Lily si era affrettata a precisare che stava scherzando e che semplicemente le avevano concesso la serata e l'indomani liberi.
    Dalle spalle del padre erano intanto sopraggiunti zia Ines, Maurice e, dalla soglia della cucina, aveva fatto capolino Dominil.
    L'avevano accolta come il miglior regalo di Natale. Era passata da un abbraccio all'altro, zia Ines l'aveva aiutata a togliere il mantello, Maurice aveva fatto alcune delle sue solite battute sulla Gringott e sui folletti, e suo padre le aveva messo in mano uan tazza fumante di vino caldo aromatizzato. Dominil, che tra tutti era quella che le capitava di incontrare un po' più spesso, aggiunse un posto a tavola per lei e si premurò di sussurrarle che era facile di vederla.
    Avrebbero potuto passare la serata a digiuno che Lily era certa non avrebbe patito la fame. La felicità, le risate e l'affetto che colmavano l'aria, sarebbero stati sufficienti a sfamarli tutti per una settimana intera.
    Si scambiarono aggiornamenti su come stavano procedendo le reciproche vite: Charles era ancora un giornalista freelance, ma era in trattativa con una rivista di attualità per il ruolo di vice direttore; Ines e Maurice avevano organizzato un viaggio in Norvegia per la prossima primavera, in occasione per loro anniversario di matrimonio. Dominil aveva da poco ottenuto un'importante promozione, mentre lei, ventisei anni compiuti appena il giorno prima, sgobbava da mesi dietro ai folletti della Gringott nel disperato tentativo di far fruttare la sua formazione come Spezzaincantesimi.

    La Gringott in mano ai Folletti è la rovina della nostra economia.

    Aveva tuonato Maurice

    E' da sempre in mano ai Folletti, Maurice. Se così fosse, saremmo dovuti cadere in rovina da molto tempo.

    Aveva controbattuto Ines, con la delicatezza che -a Lily piaceva pensare- avrebbe potuto contraddistinguere anche sua madre.

    Solo perchè una cosa è sempre stata così, non significa necessariamente che sia fatta nel modo giusto. Il modo dei Folletti di gestire la moneta è sempre stato sbagliato, pensa solo a quanto è cambiato nel corso degli ultimi anni il tasso di...

    Lily aveva nascosto un mezzo sorriso dietro al fazzoletto, poi prendendo il proprio calice, si alzò da tavola e lasciò gli adulti ai loro discorsi di politica, gestione amministrativa del Paese ed economia, decidendo di godersi il dibattito da una posizione di distanza, per riuscire a vederlo meglio e imprimere il momento più a fondo nella propria memoria.

    Sai che devi solo chiedermelo vero. La mia proposta è sempre valida. Posso fare in modo di farti inserire nella prossima missione.

    Dominil l'aveva raggiunta vicino al camino, con la bottiglia di vino in mano che aveva poggiato sul pavimento dopo aver riempito il suo bicchiere e quello di Lily.

    Lo so, e ti ringrazio, ma posso farcela da sola. Il tirocinio durerà ancora poche settimane, poi sarà tutto in salita.

    Dominil l'aveva guardata con affetto, ravviandole con dolcezza una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

    Somigli sempre di più a tua madre.

    Glielo ripeteva spesso e ogni volta, sebbene sentisse il cuore scaldarsi di orgoglio, Lily si trovava a scacciare via l'ormai debole impulso di rifiutare quella somiglianza, come per troppe volte aveva fatto in adolescenza.
    Negli ultimi dieci anni, da quando Dominil era entrata nella sua vita, Lily non aveva imparato solo a vedere suo padre, aveva anche imparato a perdonare sua madre e, cosa più importante, aveva imparato a conoscerla attraverso i ricordi che per molti anni aveva rifiutato di ascoltare.
    Da quei racconti, aveva saputo che Elisabeth Austen, fiera Grifondoro, una volta durante l'ora di pozioni aveva letteralmente sciolto un calderone in peltro a causa di una combinazione sbagliatissima di ingredienti -il talento pozionistico, Lily non l'aveva chiaramente preso dalla madre; era stata nominata Prefetto, proprio come lei, e proprio come lei aveva sempre lottato contro le ingiustizie e a favore dei più deboli. Era diventata Auror per proteggere la popolazione magica -e non solo quella- dalla corruzione e dal male, aveva preso parte alla battaglia di Hogwarts perchè credeva in una causa. Ci credeva a tal punto da accettare la possibilità di sacrificare sé stessa se il sacrificio fosse servito a rendere migliore il posto in cui sua figlia sarebbe cresciuta.
    Aveva saputo da Dominil che sua madre era morta salvando la vita ad alcuni studenti, e Lily aveva saputo, ascoltando quel racconto, di essere stata lei l'ultimo pensiero di sua madre, il pensiero in cui la sua anima avrebbe trascorso l'eternità.
    La nostalgia che lesse negli di Dominil in quel momento, la indusse a sorriderle con quel suo fare un po' beffardo per sdrammatizzare un po' la situazione

    Mh. E dici che mia madre sapeva fare questo?!

    Disse poco prima di contrarre i muscoli della faccia in una mostruosa smorfia che fece scoppiare Dominil in una fragorosa risata alla quale si unì anche Lily.
    Il rumore improvviso delle loro risate arrivò provvidenziale a interrompere sul nascere un monologo di Maurice sulla storia dell'economia magica.
    Zia Ines colse la palla al balzo per proporre, con eccessivo entusiasmo, un torneo di Gobbiglie.
    Charles portò in tavola una bottiglia di Whisky Incendiario di una prestigiosa distilleria statunitense, e Dominil e Lily tornarono a sedersi al tavolo, iniziando già a distribuire Gobbliglie tra i commensali.
    Restarono a giocare fino a notte inoltrata, finirono l'intera bottiglia di Whisky e ad un certo punto qualcuno propose persino di mettere a scaldare gli avanzi della cena.
    Fu una serata semplice, ma piacevole, una serata dal sapore leggero, vagamente nostalgico, ma sereno, e sarebbero state esattamente queste le sensazioni che qualche anno più tardi, avrebbe percepito suo figlio -o meglio, sua figlia, ma all'epoca Lily, non poteva ancora saperlo- quando, entrando in punta di piedi nei preziosi Ricordi donatigli da sua madre, l'avrebbe conosciuta per quello che era stata prima di essere messo al mondo.
     
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    Titolo: How good it is to know you're like me
    Autore: Theocracy
    Personaggi: Theo ventinovenne, Mathilda, PNG

    Iniziò in un bar, quando una ragazza con cui era uscito anni prima a metà serata se ne uscì con la frase che cambiò tutto.

    Theo, hai una figlia, ha dieci anni.

    Quella singola frase fu capace di capovolgere le sue viscere.
    “Capovolgere” fu l’unica parola che gli venne in mente, mentre cercava di dare un senso alle parole di quella donna.
    Immobilizzato davanti ad un Martini bianco, seduto al bancone di un bar di Diagon Alley, Theo assaporò un terrore che non provava da molto tempo.

    Non te l’ho mai detto perché sapevo già la tua risposta e ho evitato ad entrambi la scena patetica.

    Più lei parlava, più lui perdeva la facoltà di rispondere, paralizzato da quel caos che aveva nella testa.
    Si sentì mancare l’ossigeno, come se la ragazza che aveva davanti a lui fosse in grado di risucchiare l’energia, la luce e l’aria tutto intorno a sé, lasciandolo lì al buio e senza fiato.
    Sentiva la bocca inaridirsi, i muscoli tendersi, gli occhi spalancarsi ed il viso impallidire. Non ce la faceva, non poteva farcela e pregò che quello fosse solo un brutto scherzo, ma le sue parole furono come calci nella pancia, ed era tutto vero: Theo aveva una figlia e si chiamava Mathilda.

    Se n’era uscito con frasi da vero ipocrita: “Come hai potuto tenermelo nascosto, è anche figlia mia!”. La verità - pensò lì per lì - era che non si sarebbe mai preso una responsabilità simile.
    Aveva sempre voluto avere dei figli ma era terrorizzato, che razza di genitore sarebbe potuto essere? Ma se i suoi erano un pessimo esempio, da un’altra parte voleva esserci, voleva che lei avesse tutto ciò che non aveva avuto.
    Passarono settimane prima di prendere quella decisione, dilaniato dai dubbi, dalle incertezze, dalla miriade di domande su come sarebbe cambiata la sua vita, su come avrebbe potuto fallire miseramente, rovinare tutto come faceva sempre, farle del male o deluderla.

    Camminò per l’ingresso in punta di piedi, come se non volesse davvero palesare la sua presenza. Una parte di lui avrebbe voluto girarsi e scappare più lontano possibile, lontano da colei che avrebbe cambiato tutto.

    Ha iniziato a farmi una miriade di domande su chi fosse suo padre, non mi aspettavo di certo che ti volessi prendere una responsabilità simile ed io non ho mai avuto bisogno di niente, poi ho saputo che sei fidanzato e credevo che…

    Smise di ascoltarla, si affacciai alla porta finestra che dava sul salotto, Mathilda era seduta sul divano. Lunghi boccoli biondi, enormi occhi neri come la pece, un vestito da festa ed una chitarra tra le braccia.

    Sa che sarei venuto?

    No.
    Hai rimandato così tante volte… e sapevo che l’avresti fatto, per cui non le ho mai detto nulla per non farla rimanere male, le ho sempre detto che suo padre era un uomo integro, risoluto, ho voluto creare un’immagine di te diversa, ma le ho detto che suona la chitarra, il mese scorso ho dovuto comprargliene una per il suo compleanno… sembrava fosse una questione di vita o di morte.

    Theo sentiva il cuore occluso, batteva così forte da pulsare nelle orecchie, come se stesse per esplodere da un momento all’altro… anzi, come se il suo corpo stesse per collassare, le sue mani tremavano al punto tale di non riuscire a slacciarsi il cappotto.
    Entrò nella stanza lentamente, per inerzia. Mathilda alzò lo sguardo per studiarlo, prendendosi tutto il tempo, ma dopo poco perse di interesse, tornando a suonare la chitarra che teneva tra le mani, sempre gli stessi accordi: Mi, Re, Sol. Theo andò a sedersi accanto a lei, parlò quasi per colmare l’insopportabile abisso di silenzio.

    Se vuoi ti insegno una canzone.

    Disse con tono accondiscendente, dentro di lui però era distrutto. Nonostante sua madre gli avesse detto che lei non sapeva nulla, né del suo arrivo, né di chi fosse, era come se avesse il sentore di essere stato scoperto, come se Mathilda potesse leggere dentro di lui ed anticipare le mosse. Persino quell’indifferenza, quasi calcolata, non facevano altro che ingigantire il senso di colpa per la sua assenza. Poi però lei alzò lo sguardo, porgendogli la chitarra senza dire una parola.
    Theodore strimpellò una vecchia canzone, senza aprir bocca sotto lo sguardo di sua figlia, che lo osservava come per studiarlo.

    Posso abbracciarti? - chiese poi, tutto d’un tratto.

    Cosa?

    Posso abbracciarti? - Disse di nuovo, questa volta più lentamente.

    Annuì e lei, un poco impacciata, aprì le braccia timidamente per stringerlo un poco, si allontanò quasi subito.
    Lei lo sapeva, lo sapeva e basta, e fu come tornare a casa dopo anni di lontananza, quella sensazione che si prova quando finalmente ci si ritrova in un luogo conosciuto, in un luogo che puoi dire esser tuo, dove ogni cosa lì parla di te.
    Guardando il suo riflesso negli occhi di Mathilda si rese conto di non aver mai provato nulla di simile, che in ventinove anni della sua vita gli era sempre mancato qualcosa e quel qualcosa si trovava lì davanti a lui.

    Senti… ti va di andare a prendere un gelato?

    Annuì poco convinta e compiacente, facendolo sentire un perfetto idiota che propone un gelato nei mesi più freddi dell’anno.

    O-oppure… una cioccolata calda, a Drayrdd la fanno davvero buona.

    Il viso della bimba si illuminò.

    Ok, posso portare la chitarra?

    Certo…

    No, non voglio che mia figlia se ne vada in giro come un’artista di strada e non allontanatevi troppo.

    La donna fece una pausa e prima che se ne accorgesse, lui era già a terra ad infilare il cappotto alla bambina con occhi adoranti ed una dolcezza nello sguardo che in pochi gli avevano visto. Avevano lo stesso viso appuntito, gli stessi occhi all’ingiù che li facevano sembrare perennemente tristi, stesso colore di capelli.

    Mettile pure i guanti ed il cappello… fuori si gela.

    Theo non aveva mai creduto fosse possibile provare quel che aveva provato quando aveva sentito la sua piccola mano stringere la sua.

     
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    Titolo: Acqua di viola
    Autore: Phèdre Ronsard
    Personaggi: Phèdre (14), Amaryllis Rousseau, Thalie de Ventadour

    Beauxbatons è suggestiva, di marmo rosa e porfido, con statue di fanciulle alate col peplo gonfiato dal vento e capelli intrecciati di foglia d’oro. Costeggiano i corridoi e sono un tutt’uno con le colonne e al passaggio di qualcuno soffiano oltraggiate e scoprono denti e artigli, mutando i tratti eleganti della bellezza neoclassica in maschere di mostro. (Non è di là che devi andare!)
    L’aria a Beauxbatons profuma di acqua di viola e bouquet di fiori stagionali e lo stesso odore impregna le uniformi di seta, i cassetti della biancheria e le lenzuola, come se fosse sostanza stessa dello studente che la respira e che a fine giornata fa i conti, quasi sempre, con una gola arsa e un naso che cola. Phèdre Ronsard percorre il tragitto che va dal dormitorio alle varie classi il più rapidamente possibile, stringe le gambe l’una contro l’altra e procede strascicando i piedi, quasi sempre in coda a un gruppo già formato di studenti della stessa età, meglio se maschi, e prega che nessuno badi a lei. Guarda in basso, nervosa e goffa, si tormenta una ciocca di capelli biondastri troppo lunga che è solita finirle davanti agli occhi, si asciuga il naso con la manica della divisa e fa peggio, perché anche la divisa è intrisa di quello stesso odore dolciastro, alle sue narici sgradevole ed economico. Starnutisce, si riassetta la gonna di seta e in un pugno di tessuto si asciuga la mano bagnata.

    Phèdre, come è andata Etichetta?

    A parlare è chi le siede davanti a lezione di Trasfigurazione. Thalie ha il naso all’insù e i capelli di miele, profuma di acqua di viola e mughetto, con una nota di olio di rosa. È figlia unica di stirpe Purosangue, fa il bagno nel Goût de Diamants e ogni volta che rivolge la parola a qualcuno tiene le labbra leggermente protruse in un’espressione di malcelata superiorità. Perché Thalie de Ventadour lo è, superiore: una schiera di precettori privati è stata pagata appositamente perché primeggiasse a scuola, Madame Bourgeois, docente di Etichetta, è sua madrina, e ha almeno dieci Abraxan di proprietà nella villa di famiglia di cui potersi vantare con la guardiacaccia. Thalie ha tredici anni e orecchini di perle, pelle di porcellana e guance rosate di bambola. Aveva la scuola ai propri piedi prima ancora di iscriversi, prima ancora di nascere.

    Bene.

    Mente, Phèdre, che ha prurito alla testa, odia la divisa scolastica e starnutisce in continuazione. Puzza di sudore perché passa troppo tempo nelle serre scolastiche ed arrivarci è una scampagnata di quasi un chilometro interamente al sole. La serra Diderot di Beauxbatons è sempre silenziosa, però, ne vale la pena.

    Che strano! Amaryllis ha detto il contrario, e lei era subito dopo di te all’esame.

    Era un’interrogazione a porta chiusa. Gli studenti avrebbero dovuto comportarsi a seconda degli stimoli imposti dalla professoressa e solo chi attendeva il proprio turno oltre la porta aveva la possibilità di dedurre come fosse andato il tentativo di chi lo precedeva. Era stato il caso di Amaryllis Rousseau.
    La risata di Thalie trilla argentina e un coro nervoso di risate forzate le fa eco. La sfida, socchiudendo le palpebre e curvando le labbra rosee nel solito sorriso sornione. Sa benissimo che ha preso Desolante all’ultimo compito e vuole solo leggere lo sconforto nei suoi occhi chiari, il modo in cui annaspa alla ricerca di qualcosa da dire. E Phèdre non la delude e annaspa, asciugandosi il naso per l’ennesima volta. Lo vede, il disgusto negli occhi dell’altra a quel piccolo gesto, all’idea del moccio che non è moccio che le insozza i vestiti.

    Come lo spieghi?

    Insiste Thalie, che oggi ha deciso che la ragazzetta goffa è una preda troppo squisita per lasciarsela sfuggire tra le dita. Non ha niente contro Phèdre in quando Phèdre, ma quanto è soddisfacente mettere in luce le criticità altrui, quando non se ne hanno di proprie per le quali potrebbe esserci restituito il favore? E Phèdre non è codarda, è quasi dolorosamente ingenua quando succedono queste cose. Affonda i denti nella bile che ha sulla lingua, guarda in terra con un’espressione grave, poi livida.
    L’incantesimo le è rimbalzato addosso e l’ha lasciata umiliata, riversa in terra per la forza del contraccolpo. La de Ventadour ha riflessi superiori alla media, ha precettori privati che la istruiscono all’arte del duello. La formula scappa alle sue labbra con naturalezza e grazia e i suoi capelli dorati splendono di gloria, perché non c’era mai stata partita tra le due e probabilmente mai ci sarà. Phèdre riceve un richiamo formale e una serata di punizione con la guardiacaccia.

    +++



    Nel bagno del dormitorio femminile Phèdre osserva il proprio riflesso nello specchio in stile rococò con la cornice di legno dorato. Si fa schifo, Phèdre, e si faceva schifo anche prima del piccolo incidente odierno. Tende il tessuto della divisa azzurra fino al limite consentito, la mantella le ricade sulle spalle magre, la gonna le copre le ginocchia. Si è tolta scarpe e calze e le gambe nude sporgono da sotto come i rami del Tasso e a Phèdre viene quasi da vomitare. Lo sguardo torna sul riflesso del proprio viso. Ha lineamenti dolci che crescendo diventeranno angolari, ha ciglia lunghe e labbra piene, e i capelli le incorniciano il volto e arrivano appena sopra le spalle. Phèdre prende una ciocca e se l’attorciglia completamente sull’indice. Tira fino a sentire resistenza contro lo scalpo e l’angolo degli occhi verde chiaro si riempie di lacrime, poi lascia andare, delusa, mentre la ciocca torna in posizione giusto un po’ più ondulata delle altre.
    Quanto poco le si addice quell’identità di ragazzina pulita, che profuma di fiori e non alza mai la voce oltre il tono di un sussurro. Le compagne di dormitorio le hanno regalato un braccialetto d’argento con una piccola farfalla pendente che da giorni giace sul fondo del suo baule (mai regalo meno adatto alla sua personalità le era stato fatto, ma è quasi tradizione dei quattordici anni ricevere un gioiello) e non sarebbe perfetto per completare la cartolina? Un bel sorriso patinato, un braccialettino e quella divisa azzurra che dovrebbe mettere in evidenza forme ancora acerbe di ragazzina perbene.
    Phèdre non riesce a guardarsi in faccia, non si sente a proprio agio quasi mai. Sta scoprendo rapidamente che le consuetudini che Beauxbatons impone come fossero schemi in cui inserirsi e cuocere le stanno strette, ortica contro la pelle. Sono costumi, abitudini, modi di fare, tradizioni. Sono l’occhiata sconfortata di Madame Bourgeois vedendo che Phèdre confonde ancora i titoli onorifici dei nobili Purosangue, anche se li ripetono da mesi, o che inverte l’ordine delle posate. Lei non è così, non è quello, è diversa, è di più. Vuole di più, sempre, non vuole annullarsi in ragione di qualcosa che tanto evidentemente non le si addice.
    E quando Phèdre scivola fuori dalla divisa e resta in mutande e canottiera, non può che notare come sul proprio volto riflesso di propaghi il sollievo, neanche le avessero tolto dei macigni dalle spalle. Poi infila la testa sotto il rubinetto aperto e l’acqua corrente è ghiacciata contro la nuca ma così confortante, persino giusta. Sta espiando qualche peccato, Phèdre, mentre i capelli castano chiaro si gonfiano d’acqua, si scuriscono, le si incollano alla fronte e le scivolano sulla faccia. Li strizza e si tira in posizione eretta, li tende indietro in una coda e li posiziona sulla parte posteriore del cranio in modo che siano completamente celati alla vista. Finalmente respira. (Respira acqua di viola e accenti di fiori primaverili, ma respira.)
    Il mobile per la toletta mattutina è ingombro di trousse che non le appartengono. Alcune delle sue compagne hanno un vero e proprio arsenale di accessori per prepararsi, ogni mattina, e si svegliano con largo anticipo per assolvere alla minuziosa sequenza di operazioni necessarie per rendersi presentabili. Phèdre ha solo uno spazzolino e un dentifricio alla menta per metà vuoto. In un bauletto rosa trova delle forbicine per unghie: non sono l’ideale ma sono sufficienti allo scopo. Chinata sul lavandino, tende una ciocca di capelli alla volta e con cautela taglia il più possibile vicino alla radice. Non fa un buon lavoro, Phèdre, non ha competenze da parrucchiera, ma sente i suoi polmoni dilatarsi di soddisfazione bruciante a ogni ciuffo castano scuro che vede cadere per opera della propria mano impietosa. Si sente potente, Phèdre, e pensa a ciò che potrebbero dire gli adulti vedendola conciata così, con capelli rovinati che le gocciolano sulle spalle nude e la canottiera leggera. Ride. Non fa dispetto a nessuno se non a se stessa, ma si sente per la prima volta leggera, liberata di una zavorra, tanto leggera da librarsi in aria e farsi spuntare ali di cera, di marmo o di raso.

    Phèdre bambina
    Ho preso la licenza di ambientare la fic a marzo 2023, quando Phèdre ha già compiuto 14 anni pur essendo ancora al terzo anno per poter sfruttare quanto ho in scheda a proposito del primo taglio radicale di capelli. Ho marcato il numero dieci in grassetto.

    Ho messo numerosi riferimenti a cose che ho citato in varie role, chiaramente inventate da me, su Beauxbatons:
    - l'idea che esista un corso di Etichetta magica e che Beauxbatons tenga particolarmente alla formazione di giovani beneducati in qualsiasi contesto formale (pure il nome della docente l'ho già usato in altre role);
    - Il nome delle serre scolastiche che anziché essere distinte per numero sono caratterizzate da nomi di personaggi storici;
    - Il fatto di essere stata messa molte volte in punizione con la guardiacaccia a spalare merda di Abraxan;
    - Che sia tradizione regalare un gioiello alle ragazzine di 14 anni. Lo vedo un po' come il braccialettino della comunione o cose così, mi piaceva.


    Edited by Phèdre Ronsard - 8/1/2022, 17:33
     
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    Titolo: In mezzo al nulla
    Autore: me medesima (?)
    Personaggi: James "l'Inglese" Morgan, Shawn "Bulldog" Warren, Tenente Kerry Simms, Maggiore Barnes
    Note: ambientato dieci anni nel passato, ovvero nel 2022. Potrebbe essere successo sul serio, chissà...


    L’unica cosa che voleva fare era trovare un angolo all’ombra dove potersi strappare di dosso i vestiti - probabilmente assieme a diversi strati di pelle a cui si erano incollati - e farsi una doccia. E invece doveva sopportare ancora per chissà quanto tempo la divisa attaccata addosso dal sudore dei quaranta gradi all’ombra, con la cinghia del fucile che le tagliava una spalla e la canna che continuava a sbatterle contro una coscia ad ogni passo.
    Se non la beccava prima un missile, probabilmente sarebbe morta di caldo uno di quei giorni.
    Si mise a correre per raggiungere l’uomo che stava cercando da quando aveva fatto ritorno al Campo Base da neanche dieci minuti, prima che scappasse a nascondersi come faceva di solito. Riuscì a raggiungerlo e aprì bocca per fermarlo prima che si inventasse una scusa per tagliare la corda, ma la batté sul tempo.

    Ti stavo cercando - le disse, inaspettatamente.

    Sul serio? - chiese di rimando, sorpresa. In genere è il contrario. Senti, so che siamo a poche ore dalla partenza…

    Ti prego non cominciare - la interruppe Kerry sollevando lo sguardo al cielo. Sono cinque anni che ascolto la stessa storia. No, Morgan, non decido io dove farete la decompressione. E no, non puoi evitarla.

    Ma…

    Non. Dipende. Da. Me - scandì lentamente, facendola tacere. Puoi lamentarti quanto ti pare ma non ha cambiato la situazione negli ultimi cinque anni e non lo farà neanche ora.

    James roteò gli occhi, trattenendo l’insulto che le salì alle labbra solo perché c’era un po’ troppa gente in giro. Per quanto tutti gli altri marines adorassero le due settimane di decompressione obbligatorie passate su qualche spiaggia in culo al mondo prima di tornare finalmente a casa, lei le detestava. Mai che li mandassero da qualche parte di un po’ più interessante. No, erano sempre spiagge. Odiava il mare, più che rilassarsi peggiorava soltanto il suo umore, ottenendo l’esatto effetto contrario. Era mai importato a qualcuno? Ovviamente no.

    Perché mi cercavi? - gli chiese alla fine, ricordandosi soltanto in quel momento di quel dettaglio.

    Perché volevo darti la buona notizia di persona - esordì, un po’ troppo allegro per i suoi gusti.
    Era sospettosamente allegro.

    Stasera partirete per tornare a casa. Decompressione di dieci giorni, a Guantanamo.

    James rimase letteralmente a bocca aperta. Intanto che processava le sue parole un sospetto iniziava a farsi largo nella sua mente, facendole corrucciare lo sguardo.

    La cattiva notizia qual è? - gli chiese alla fine.

    Lei amava Cuba, e Guantanamo era il meglio che potesse sognare per passare quelle due dannate settimane - ora misteriosamente ridotte a dieci giorni - di noia mortale.
    Lui in risposta inspirò, poggiando le mani sui fianchi e abbassando lo sguardo.

    Mi serve che tu e i tuoi Pirati vi prendiate un po’ di tempo di riposo - disse alla fine.

    CHE COSA?!

    Non le importò minimamente che aveva appena urlato in faccia a un suo superiore e il superiore in questione probabilmente era soltanto felice che non si fosse ancora messa a sparare. Lei e i suoi Pirati - il nome con cui veniva chiamato il suo team - non si prendevano delle “pause di riflessione”.

    Di che cazzo stai parlando? - riprese poi avvicinandosi di un passo e abbassando il tono della voce. Noi due - proseguì, sventolando la mano tra loro due - abbiamo le prossime due missioni organizzate da mesi. Dovevamo tornare a casa per il Ringraziamento e ritornare di nuovo qui il 10 di gennaio. Di che cazzo stai parlando?

    La domanda era volutamente ripetuta. Gli stava dando la possibilità di ritrattare.

    Resta a casa per un paio di mesi. Riposati. Pianta delle rose, fai quello che ti pare. La situazione non cambierà. E probabilmente i tuoi cani rabbiosi ne saranno anche felici. E a proposito, eccone uno che arriva.

    A loro non piace essere chiamati “cani” - gli ricordò, un po’ sovrapensiero.

    Tu dici? Hey, Bulldog! - alzò la voce per chiamare l’uomo che si stava avvicinando a loro. Hai già trovato un idrante dove fare i tuoi bisognini?

    James sapeva che Kerry stava facendo il coglione per distrarla dalla notizia bomba che le aveva dato. Lo avrebbe avvisato che si stava scavando la fossa da solo? Certo che no. Ma erano cinque anni che aveva a che fare con loro, oramai doveva aver imparato la lezione. Non si insultava un pirata senza aspettarsi qualcosa di peggio in ritorno, lo sapevano anche i muri oramai.

    Si, certo - gli rispose lui sempre urlando. Vuoi anche vedere come scodinzolo? - aggiunse, portandosi la mano alla patta dei pantaloni.

    Rise quando sentì Kerry imprecare sottovoce. Lei lo aveva avvisato. Lo guardò allontanarsi intanto che Shawn - Bulldog - la raggiungeva, ancora sorridente per la pessima battuta.

    Perché lo sguardo da funerale? - le chiese, il sorriso svanito nonappena notò il suo voltò adombrato. Non dirmi che andiamo di nuovo a Malta per la decompressione.

    No - gli rispose, inorridita al solo pensiero. Andiamo a Cuba.

    Gitmo! E andiamo! - esclamò felice, sollevando una mano per batterle il cinque.

    Mano che lei ignorò, ancora che rimuginava sulla questione. Shawn riabbassò la mano e il sorriso evaporò di nuovo, sparito come il sole dietro una nuvola.

    Andiamo, Inglese, tu ami Cuba.

    Ci mettono in panchina - gli rivelò. Ecco perché ci mandano a Cuba.

    Come sarebbe a dire in panchina?

    Non ne aveva idea, ma iniziava ad avere un sospetto a riguardo. Infatti in lontananza vide una faccia familiare guardarla prima di allontanarsi, un ghigno che volentieri gli avrebbe tolto col calcio del fucile che gli piegava le labbra. Iniziava ad avere un’idea sempre più concreta su cosa stesse succedendo.

    Chi c’è alla base di grado superiore? - gli chiese di punto in bianco. Possibilmente qualcuno che non mi odi - aggiunse.

    Shawn richiuse la bocca che aveva appena aperto per risponderle.

    Forse il Maggiore Barnes - rispose alla fine. Non è il massimo ma sempre meglio di Dunn. Voglio sapere a cosa stai pensando? Devo venire con te a darti man forte? Posso andare a chiamare Tank.

    No, e si. Non abbiamo tempo per Chris - gli spiegò avviandosi verso la tenda degli ufficiali.

    Quella era la volta buona che si beccava un richiamo ufficiale, lo sentiva. Ne aveva fatte di stronzate e aveva sputato più di una volta sulla linea che delimitava la coglionaggine dall’insubordinazione, ma quello andava ben oltre. Neanche le avesse letto nel pensiero, Shawn sentì il bisogno di esprimere il suo parere sulla situazione a voce alta.

    Time to do some sketchy shit, doo da, doo da… - si mise a canticchiare accanto a lei.

    Lo ignorò, perché sapeva che se gli avesse dato corda avrebbe soltanto peggiorato le cose. Trovò il Maggiore fuori dalla tenda, seduto su una sedia da campeggio intento a bere qualcosa da una tazza con il logo dei Marines. James e Shawn scattarono sull’attenti, salutando il loro superiore portando la mano al capo, schiena dritta, sguardo dritto davanti a sé. L’esempio perfetto del Marine devoto.
    Il Maggiore Barnes non si bevve quell’esempio di patriottismo neanche per un secondo.

    Riposo - concesse loro con un mezzo sospiro.

    Entrambi abbassarono le mani portandole dietro la schiena, le gambe allargate nella posizione di “riposo” - che poi di riposo non aveva quasi nulla.

    Maggiore, posso disturbarla per un momento?

    Certo, Morgan - le concesse mentre allungava le gambe davanti a se. Anche se credo che il Tenente Simms ti stesse cercando.

    Non l’ho incontrato, siamo appena rientrati - mentì lei con naturalezza. Vorrei chiedere se fosse possibile per noi Pirati prenderci qualche mese di riposo. Non siamo propriamente stanchi, ma per mantenere il ritmo che stiamo sostenendo senza commettere errori credo sarebbe meglio… rallentare, per un po’.

    Shawn, accanto a lei, rimase impassibile come una statua, ma le parve di sentire un flebile gemito - il suono di un cucciolo sofferente e prossimo alla morte - uscirgli dalla gola. Lei, per contro, aveva talmente tanta adrenalina in circolo che se qualcuno le si fosse avvicinato alle spalle sarebbe scattata come una molla arrivando fino in orbita.

    Ah - fu il commento del Maggiore, sinceramente sorpreso. Un paio di mesi, dici?

    Giusto il tempo di permettere a Warren di farsi crescere la barba - commentò con tono leggero, accennando a Shawn con un gesto del capo. Lo so che avevamo pianificato un paio di missioni assieme al Tenente Simms, ma credo che il team del Sergente Teel se la caverà alla grande.

    Questa volta era più che certa di aver sentito il gemito di Shawn. Poteva scommette la sua pistola preferita che quel coglione di Teel era andato a lamentarsi a chiunque fosse il superiore a cui leccava il culo perché le missioni migliori le avevano sempre loro e le era bastato vederlo gongolare a dieci metri di distanza per capire che c’era lui dietro quella stronzata del “prendersi una pausa”.
    Vigliacco. Perché non veniva a dirle in faccia il suo parere invece di andare a piangere dalla mammina? Stupido vigliacco.

    Lo prenderò in considerazione. C’è altro? - chiese alla fine Barnes.

    Niente, signore - rispose lei, facendogli il saluto prima di fare un cenno a Shawn per allontanarsi.

    Che cazzo hai appena fatto - le sibilò lui mentre si allontanavano, mentre si sforzava di mantenere lo sguardo neutro. Teel? Sul serio? Quel coglione manderà tutto a puttane.

    È quello il piano - si limitò a rispondergli.

    C’erano voluti mesi per limare ogni singolo dettaglio per quella missione, avevano valutato ogni scenario possibile e immaginabile. I Pirati oramai erano pronti a tutto. Teel e i suoi cretini, no.
    Anche perché buona parte di quei dettagli era solo nella sua testa.

    Vado a cercare Doc, tu trova gli altri - gli ordinò. Impachettate tutto e nascondetevi fino alla partenza. Se Kerry ci scopre prima che siamo al sicuro sull’elicottero, siamo fottuti.

    Aveva appena mentito ad un suo superiore per agire dietro le spalle di un altro, per sabotare una missione che sarebbe stata un assoluto capolavoro se non fosse stato per quello stupido ordine che li metteva in panchina. E se avesse avuto fortuna la colpa del “malinteso” sarebbe ricaduta su Kerry. Erano decisamente fottuti.

    Dici che possiamo nasconderci in una cella a Guantanamo?

    Basta che poi ci permettano di uscire.
     
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    Titolo: 'nature has cunning ways of finding our weakest spot'
    Autore: Einar Bjarnsson
    Personaggi: Einar, Theocracy, Arne (PNG)


    [ Casa di Einar, un pomeriggio di inizio primavera, 2043. ]


    Aveva perso la cognizione del tempo e, nel tentativo di recuperarne almeno un po', si fermò a cercare il sole in un cielo che sapeva di benessere solo a guardarlo; l'inverno stava scivolando via silenzioso, la fresca luce di quel giorno trasformava il prato attorno alla casa in un teatro posto sotto ai riflettori, con la schiera di alberi della foresta di Drayrdd tutti attorno a fare da immancabili e puntuali spettatori. Era cambiata molto, quella casa, nel corso degli anni. Quello che doveva essere un rifugio temporaneo, una sistemazione accampata, aveva poco alla volta messo in fila tutta una serie di aggiunte necessarie, anche solo a farla sentire di più un posto suo. Ad un certo punto era spuntato un capanno in cui riporre la legna e gli attrezzi in esubero, poi una tettoia porticata dove concedersi addirittura qualche tramonto seduti ed in pace - forse più con il mondo che con sè stessi - e infine addirittura le pareti della casa si erano poco alla volta fatte più robuste, lì dove la pietra aveva sostituito il legno per cementare, in qualche modo, una stabilità che aveva rincorso per anni. Ancora adesso, all'alba di quei quarant'anni che non dimostrava neanche per sbaglio, camminava su una linea sottile che gli rendeva difficile capire se quella che aveva tra le mani fosse una vita arrivata per resa o perchè aveva finito di voltare tutte - o quasi - le pagine che doveva. Ma tanto era cambiato, e tanto era rimasto uguale. Proprio a quest'ultimo proposito si potrebbe parlare dell'ostinata noncuranza con cui trascinava la sua accetta lungo i fili d'erba del prato, avanzando con lentezza verso il tronco mozzato che usava come base d'appoggio per i ceppi da tagliare. Non lo aveva mai fatto con la magia, non avrebbe mai iniziato a farlo così, probabilmente; nonostante gli sarebbe costato un centesimo della fatica abnorme che si trascinava dentro, avendo passato la Piena da nemmeno mezza giornata. Avrebbe dovuto essere ridotto ad un cencio, distrutto ed abbandonato nel letto e senza più una briciola d'energia in corpo, eppure era lì; che in realtà un cencio lo era davvero, pallido come qualcuno a cui manca un passo dallo svenimento, con anche qualche taglietto ancora fresco di poco conto sparso in più punti.

    Ma è proprio necessario?

    La voce di Arne arrivò dritta dal primo scalino del portico, dove il giovane ragazzo sedeva imbracciando una chitarra ancora silenziosa. Era cresciuto, tanto - troppo - superando in altezza Einar, biondo dentro e fuori; conservava quasi in ogni gesto il Fuoco che l'aveva accompagnato prima ad Amestris, e poi a proseguire gli studi nelle arti curative per il quale aveva scoperto una spiccata propensione. Era bravo, poteva davvero costruirsi una strada diversa da quella che gli sarebbe toccata in sorte se avesse seguito le orme di Einar, ed accettare questo era stato da un lato la cosa più difficile di quegli ultimi anni, dall'altro la speranza che serviva per poter iniziare a ricostruire dai pezzi sparsi a terra.

    Infatti. E' proprio necessario discuterne ogni volta?

    Sfiatò via di lato quella punta di fastidio dalle narici, da che mondo e mondo il figlio ventenne poteva sapere che cosa fosse adatto fare meglio di lui? Aveva ancora tanto da lavorare, Einar, sull'accettare che gli altri si preoccupassero per lui. Dieci anni mica bastavano.

    Mettiti a letto, per l'amore degli dèi. Ho anche altro da fare anzichè passare il tempo a ricucirti.

    Non farlo, allora.

    Arne rimase interdetto. Chiunque lo sarebbe stato al suo posto, dopotutto, non potendo cogliere le ragioni dietro quell'apparente ingenerosa scontrosità. Andavano ben oltre la Piena e gli umori sbalzati dagli influssi lunari, ma li aveva tenuti per sè, come sempre. E al giovane ragazzo non restò che alzare le mani in segno di resa, chinando lo sguardo sulle corde della chitarra che Theo gli aveva regalato, ormai da così tanto tempo che sembrava assurdo vederla ancora integra e sana.

    Sai che c'è, come ti pare.

    Il tonfo sordo dell'accetta che s'incastonava nel ceppo di legno, non riuscendo a separarlo del tutto in due metà al primo colpo, fece da eco ad uno sbuffo di fatica di Einar, che tuttavia si trovò a sorridere d'istinto nel sentire le prime note uscire dalle corde di Arne. Erano i Beatles, e per qualche ragione, ormai, sapeva riconoscerli nel tempo di pochi accordi.

    Anzi no, un corno. Non capisco perchè tu debba comportarti come un ottuso, sei .. ma - si interruppe, e con lui anche la musica - c'è zio Theo!

    Non si sa se in nordico ci sia un'espressione simile a quando parli del diavolo, ma dopo il terzo inutile tentativo di staccare l'accetta dal ceppo si fermò anche Einar, spostando lo sguardo verso il punto indicato dal giovane Arne, che aveva già abbandonato la chitarra di lato per corrergli incontro e regalargli il solito abbraccio di benritrovato. Einar, che invece che invece era sempre stato espansivo come un manico di scopa, passò una manica a strofinare contro la fronte ed approcciò con cautela anche quei primi sguardi. Sarebbe stato davvero difficile, stavolta.


    [ Dopo il tramonto ]



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    Grazie per essere passato. Lo rendi sempre felice, quando ti vede.

    Chi non lo è di vedermi, Einar. Comunque figurati, era il minimo.

    Gli sfuggì un mezzo sorriso divertito, uno di quelli che aveva riconquistato un po' alla volta nel corso del tempo, mentre lo sguardo attraversava il portico dove lui e Theo sedevano, diretto verso l'interno della casa dove Arne era rimasto a fare chissà cosa. Da quegli scalini ne intravedeva soltanto la testa bionda spuntare non lontano dalla sua camera, ed era importante, almeno per il momento, che quelle parole rimanessero confinate al di fuori delle mura.

    Quando gli dirai che stai per partire?

    Ce l'aveva fatta anche Theo, dopotutto. A cambiare tutto e niente, a conquistare ciò che la sua ambizione lo portava a rincorrere di continuo, senza però soccombere a sè stesso. A sopravvivere alla vita, direbbero alcuni.

    Domani, godiamoci la notte, no? Tanto non c'è fretta.

    Le dita strette attorno ad un calice, gemello a quello che stava tra le mani di Theo, si costrinsero a farlo girare un paio di volte in un cerchio lento e continuo. Inspirò, facendo del suo meglio per imporre la solita aria neutra al tono, quella un po' distaccata, un po' da chi ha sempre la necessità di prendere a pugni il mondo.

    Devi andarci per forza?

    Non avrebbe mai voluto chiederglielo, non in quel modo che si portava dietro così tanti impliciti e argomenti sottesi da farlo sentire a disagio già solo nell'aver aperto bocca.

    Non puoi fare le stesse ricerche qui? E' un viaggio lungo, Theodore, e ho interrogato gli dèi. Hanno dato presagio di sventura, non è una buona idea partire.

    Einar.. sarà solo per dieci mesi, smettila di preoccuparti così tanto. Con tutto il rispetto per gli dèi, qui l'unico che mi sta tirando la sventura sei tu.

    E forse un po' era vero. Einar era inquieto, per quanto si sforzasse di darlo a vedere il meno possibile, di atteggiarsi come sempre. Ma c'erano troppi elementi disturbanti, troppe cose che si stavano allineando con il retrogusto di un deja-vù che sapeva ancora pungerlo nel vivo; Theo non era mai stato via così tanto a lungo, nemmeno durante i suoi tour, le sue altre ricerche, le sue fughe d'ogni sorta e natura. E l'immagine di un viaggio così lungo, ma soprattutto della catastrofica eventualità che potesse finire male o peggio, che non lo vedesse proprio di ritorno così com'era stato tanti anni prima per Lena, gli dava un tormento non propriamente razionale e giustificato. Ma forse questo Theo lo sapeva, ormai.

    Tranquillo, davvero. Lo sai che torno.

    Einar sospirò. Theo aveva ragione, l'aveva sempre fatto. E forse sarebbe davvero stato così anche quella volta.
     
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    Titolo: Nessun posto è come casa
    Autore: me medesima (?)
    Personaggi: Moira de Winter, Sheevarhas N. Flamel

    Era con passo leggero che stava attraversando le vie di Diagon Alley, godendosi l’aria fredda sul viso, la neve che scendeva leggera dal cielo, le vetrine dei negozi tutti addobbati per le festività Natalizie. Le era mancata la sua casa, nelle settimane che era stata vita.
    Non sapeva neanche quando esattamente avesse iniziato a considerare Londra come casa visto che ancora si riteneva pienamente scozzese - anche se priva del tipico accento, che sua madre le aveva estirpato fin dalla nascita - ma da qualche parte, forse negli anni della Lumos, aveva messo radici in quella città, tanto da essere felice ogni volta che vi faceva ritorno.
    Si affrettò ad attraversare la strada, facendosi largo tra un gruppo di ragazzi che erano appena usciti da Accessori da Quidditch di Qualità. Si sistemò la borsa sulla spalla, la vecchia borsa ancora dai tempi di Amestris, che aveva visto decisamente giorni migliori ma a cui era profondamente affezionata. Aveva visto il mondo in lungo e in largo con quell’ammasso di stoffa su una spalla, era ancora tutta intera, anche se un po’ sbiadita, e non l’avrebbe cambiata finché non si sarebbe completamente distrutta.
    Cosa che sembrava non sarebbe successa a breve.
    Dopo qualche altro attimo di cammino e svariati slalom tra gruppetti di persone a spasso, intravide l’insegna del Ghirigoro, la sua prima meta per quel giorno. Anche se era soltanto di passaggio, passava sempre al Ghirigoro ogni volta che veniva a Londra.
    Entrò accompagnata dallo scampanellio, prima di richiudersi rapida la porta alle spalle. Tolse i guanti e il berretto per poi infilarli nella tasca del cappotto, sistemandosi i capelli che le arrivavano di poco sopra le spalle mentre si avvicinava al bancone.
    Sheevarhas era impegnata con dei clienti, quindi si limitò ad attendere in disparte. Erano passati molti anni dal loro primo incontro, ma restava una tra le più belle donne che avesse mai visto. Il tempo pareva non avere potere su di lei.
    La vide sollevare la testa e notarla e Moira le rivolse un ampio sorriso a trentadue denti.
    Aspettò quasi saltellando sui piedi che i clienti pagassero e uscissero per poi fiondarsi dietro il bancone e abbracciare quella che era stata la sua mentore. E che ancora lo era.
    Moira non era una persona da abbracci ma spesso, con certe persone particolari, quello era l’unico modo che le veniva in mente per provare a dimostrare il suo affetto, visto che con le parole spesso faceva difficoltà a trovare quelle giuste.

    Com’è andato il viaggio? - le chiese nonappena Moira decise di staccarsi per lasciarla respirare.

    Oh, è stato magnifico. Petra è magnifica! Potrebbe quasi essere il mio nuovo posto preferito al mondo - iniziò a parlare a raffica.

    Ovviamente lei già lo sapeva, le aveva mandato spesso qualche lettera ed era stata proprio lei a suggerirle di visitarla.

    I mosaici Bizantini sono stupendi - beh, come tutti i mosaici bizantini - e El Khasneh è un ca-po-la-vo-ro. Credo di aver fotografato ogni singolo centimetro dell’intera valle.

    Continuò a parlare intanto che si mise a trafficare nella borsa, da dove tirò fuori un piccolo pacchetto, incartato con un giornale. Continuando a blaterare senza sosta di tutto quello che aveva visto si mise a scartarlo, tirando fuori una piccola statuina di bronzo.

    Ti ho portato un regalo - le disse. E’ una copia, ovviamente, ne ho una uguale. Anche se ho incontrato alcuni individui un po’ strani che vendevano cose che giuravano fossero originali. E per quel che ho potuto vedere sembravano veramente degli originali.

    Non avrebbe mai comprato qualcosa da dei tombaroli, neanche per mettere in salvo quei reperti dalle loro sudice mani.

    Comunque che mi racconti? E’ successo qualcosa di interessante a Londra? - chiese alla fine, appoggiandosi con gli avambracci al bancone.

    Ho finito il libro sul culto di Ishtar - le rivelò alla fine, lasciando Moira a bocca aperta.

    E perché non l’hai detto prima? - esclamò entusiasta, ricominciando a saltellare sui piedi. Avevi promesso che mi avresti lasciato leggere il manoscritto. Posso, vero? Dai, ti prego ti prego ti prego.

    Anche se oramai alle soglie dei trenta, continuava a restare e spesso comportarsi come una ragazzina. Secondo lei era quello il segreto per restare giovani in eterno: non prendere tutto troppo sul serio, soprattutto se stessi.

    Certo - le concesse con un sorriso e roteando gli occhi al soffitto scherzosamente. Ma prima andiamo a cena. Giusto?

    Certo che andiamo a cena - ribatté Moira.

    Quella era una tradizione a cui non avrebbe mai rinunciato.
     
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    Titolo: Il Bacio del Dissennatore
    Autore: Dominil Weston
    Personaggi: Dominil Weston, Caleb Cooper (fidanzato defunto), Lily Anne Hale e suo padre Charles (citati)

    La luce calda delle fiamme che danzavano nel camino si riversava nella stanza trasformandola in uno strano luogo dall'aspetto surreale.
    Il fuoco muoveva aria calda e con essa sembrava che ogni cosa assumesse una consistenza fluida e viscosa. Ogni cosa, in quella stanza sembrava fatta di lava.
    Dominil sedeva a terra, ai piedi del divano, davanti al camino. Accanto a lei, un calamaio e un calice di vino rosso; sulle ginocchia, un foglio di pergamena. Aveva scritto solo due parole, poi era stata risucchiata dai bizzarri guizzi delle ombre che animavano gli oggetti presenti nella stanza.
    Si era domandata se forse non avesse esagerato con il vino. Potevano essere trascorresi dieci anni o dieci minuti, il tempo, in quella strana dimensione in cui si trovava, aveva persona di valore, e le uniche parole che le erano risultate semplice da scrivere erano state Caro Charles.
    A due anni dalla morte di Beth, Dominil sentiva ancora un vuoto dentro che, ormai iniziava a intuirlo, non sarebbe mai riuscita a colmare di nuovo. Doveva iniziare a rassegnarsi all'idea che non sarebbe mai più stata completa. Questa nuova consapevolezza, ancora troppo acerba per essere davvero compresa del tutto, l'aveva portata a domandarsi spesso e in maniera sempre più grave, cosa dovesse invece significare per Charles sapere di essere condannato a una vita in cui la donna che amava semplicemente non esisteva più. Allo stesso tempo, si chiedeva, come doveva essere sapere di non poter fare altrettanto, smettere di esistere, perchè dalla sua esistenza dipendeva quella di una piccola creatura innocente, che a quel gioco di dolore non aveva scelto di prendere parte, ma ne sarebbe stata inevitabilmente travolta per il resto della vita.
    Il nodo alla gola che si strinse quasi fino a strozzarla, coincise con lo scatto della serratura che nel silenzio della casa risuonò come ossa rotte.

    Dom?

    La voce di Caleb la raggiunse come un lazo, l'avviluppò e la strappò via dal baratro di malinconia in cui stava precipitando, salvandola da una caduta libera che non avrebbe avuto fine.
    Un rumore di passi in avvicinamento, poi l'ombra dell'uomo si unì a quella danzante del reso della stanza

    Ehi, che fai al buio?

    Chiese con delicatezza, slacciandosi il mantello e adagiandolo sul divano, per poi scivolare accanto a Dominil. Uno sguardo al calamaio, uno al calice di vino quasi vuoto e l'ultimo, senza nemmeno passare per la pergamena, al volto della donna.
    Dominil spostò lo sguardo dalle fiamme del camino al viso di Caleb e accennò a un sorriso, di quelli che faceva spesso quando era pericolosamente vicino alla disperazione, ma non voleva che lui se ne accorgesse.
    Non ci riusciva mai.

    Non sono al buio. C'è il camino.

    Rispose con finta leggerezza. Inclinando appena la testa verso il focolaio e dipingendosi sul viso la miglior espressione di noncuranza che riuscì a trovare.
    Caleb la guardò per un lungo attimo negli occhi. Alla luce aranciata delle fiamme, le iridi smeraldo diventavano quasi cangianti, o forse era merito del vino -o della tristezza- che le aveva reso languido lo sguardo. Allungò la mano per afferrare il calice, ne bevve un sorso poi lo poggiò di nuovo a terra, ma lontano da lei questa volta. Era una cosa che faceva spesso quando credeva di doverla allontanare dal rifugio ingannevole dell'alcol. Non le diceva mai di smettere, ma con finta distrazione, entrava con lei in quel mondo di sensazioni alterate e piano piano la portava fuori con sé, facendole quasi credere che fosse una sua scelta.

    A chi stai scrivendo?

    Le chiese, senza abbassare lo sguardo sulla pergamena perchè, anche se avrebbe potuto leggere da solo il destinatario della missiva, Caleb era così, non si appropriava mai, senza permesso, delle cose altrui.

    A chi sto provando a scrivere.

    Lo corresse lei, spostando lo sguardo sul foglio che aveva sulle gambe. Le due misere parole ricambiarono lo sguardo quasi beffeggiandola.

    Forse non ci riesci perchè è troppo buio. Con un po' più di luce potrebbe essere più facile. Posso?

    Senza tornare a guardarlo, Dominil scosse piano la testa e mugugnò piano il suo dissenso. Nel buio dei suoi demoni, voleva restarci ancora un po'.

    Preferirei di no, se non ti dispiace.

    Lui accolse la sua volontà senza controbattere, ma fece scivolare un braccio attorno alla vita di Dominil stringendola poi leggermente a sé.
    Nella stanza, nonostante il buio, affiorò un po' di luce.

    Non so nemmeno che senso ha continuare a scrivergli. Non ricevo loro notizie da quasi un anno ormai.

    Disse Dominil dopo un attimo di silenzio in cui entrambi si erano dedicati ad ascoltare il borbottio delle fiamme.

    Vuoi fargli sapere che stiamo bene, che pensiamo a loro e che per loro ci saremo sempre.

    Dominil inclinò la testa fino ad adagiarla sulla spalla di Caleb, il posto a cui apparteneva.
    Avrebbe voluto rispondergli che no, gli voleva scrivere per dirgli che si stava comportando da stronzo. Che non era stato l'unico a perdere un pezzo di cuore, che Beth mancava a lei ogni giorno come se al mondo fosse stato sottratto un po' di ossigeno. Che le mancava anche lui, Charles, che era stato egoista a voler tenere il suo dolore solo per sé, che soffrendo insieme sarebbero potuti guarire e invece in questo modo aveva condannato entrambi a una vita di assenza. Che le mancava Lily Anne, che Beth non avrebbe voluto che la portasse via da lei, che lei aveva bisogno di quella piccola peste dai capelli rossi, perchè era Beth. Ogni giorno di più, Lily Anne si sarebbe avvicinata alle sembianze di sua madre e Charles, da quella vicinanza, l'aveva bandita.
    Avrebbe voluto scrivere questo nella lettera e vomitare addosso a Charles tutta la sua rabbia, il suo dolore e la frustrazione per la sua impotenza, e fu grata, in realtà, al buio che l'aveva cullata prima dell'arrivo di Caleb, perchè di quelle parole scritte di getto si sarebbe pentita nell'attimo in cui la lettera avrebbe lasciato le sue mani. E di tornare indietro, lo sapeva, nella vita non era concesso.

    Ci pensi mai se fosse capitato a noi?

    Chiese all'improvviso Dominil, la testa ancora poggiata alla spalla di Caleb e lo sguardo fisso ul camino.

    Se fossi stata io a morire, quella notte ad Hogwarts, per te come sarebbe stato?

    Le dita di Caleb si strinsero con più forza al suo fianco, come se avessero voluto entrarle dentro per esser certe che dalla loro presa non sarebbe sfuggita.

    Come morire a ogni risveglio.

    Rispose lui, senza esitare. E a qualcuno sarebbe potuto sembrare che avesse risposto con distacco e superficialità, ma non a Dominil. Lei riusciva a cogliere ogni minima inflessione della sua voce, perchè quella voce risuonava dentro in lei come se fosse la sua.

    No, non come morire. La morte, in quel caso, sarebbe la salvezza.

    Si corresse, girò leggermente la testa verso di lei, inclinandola fino a depositarle un piccolo bacio sulla sommità del capo.

    Come essere ogni giorno a un passo dalla morte. Come vivere in eterno l'attimo di agonia che la precede, senza mai riuscire a raggiungerla e ricominciando ogni giorno, di nuovo da capo. Sarebbe il mio inferno personale.

    Era sempre stato bravo, Caleb, con le parole. Molto più di lei che finiva sempre col farsi prendere dalle emozioni e rendere confuso ogni concetto che tentata di esprimere. Finiva sempre col cercare di farsi capire con un gesto, delle attenzioni.
    Con le labbra curvate leggermente in un piccolo sorriso e dentro al petto il cuore in tumulto, sollevò la testa dalla spalla di Caleb per avvicinarla all'incavo del suo collo. Si protese per arrivare a sfiorargli la pelle con le labbra e invece di baciarlo, inspirò lentamente e profondamente il suo profumo. Dietro gli occhi socchiusi, un'esplosione di colori fece fremere ogni singolo nervo all'interno del suo corpo.

    E dimmi. Per te, come sarebbe stato?

    La sola domanda fu sufficiente a farle avvizzire ogni organo interno. Cuore, stomaco, polmoni, in un attimo fu come se fossero stati prosciugati di ogni linfa vitale. La gola si era seccata e nella testa, l'immagine fulminea di una non-vita, aveva preso possesso di tutto.
    Come sarebbe stato, per lei, vivere senza Caleb.
    Sarebbe stato non vivere. Il Bacio di un Dissennatore.
    Colta dall'improvvisa necessità di scacciare lontano quelle sensazioni, affondò il viso nell'incavo del collo di Caleb e non respirò stavolta, ma dischiuse le labbra per baciarlo e stringere piano, ma con urgenza, la sua pelle in una piccola morsa tra i denti.
    Un movimento fluido e si ritrovò a cavalcioni su di lui, le mani che gli stringevano il viso e le labbra che cercavano con impellenza le sue, trovandole protese ad accogliere l'impeto dei suoi baci.
    Nel muoversi, con il ginocchio aveva urtato il calice di vino, che cadendo aveva riservato sul tappeto il liquido scarlatto. Si allargava tra le trame del tessuto come un funesto presagio, ma nessuno dei due lo degnò di nota. L'unica cosa che contava, in quel momento, era entrarsi dentro a vicenda, scongiurare l'agonia dell'assenza dalle loro vite, incidersi nell'anima la presenza dell'uno e dell'altra perchè vi restassero ancorati più a lungo possibile, perchè mai, né l'uno né l'altra, avrebbero potuto dimenticare.
     
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    Elfi Domestici
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    Pepy e Panky hanno accreditato tutti i p.e. delle splendide FF pubblicate fino ad ora!
    Pepy e Panky ricordano ai gentili Padroni, Padroncini e Padroncelli che d'ora in poi sarà possibile guadagnare 5 p.e. per ogni FF.

     
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