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    Titolo: La prigione di vetro
    Autore: Andrew Edward Laeddis
    Personaggi: vedi spoiler in fondo

    La sirena suonava di prima mattina.
    Era un suono devastante, un'esplosione improvvisa che squassava il sonno e sbatteva la mente.
    Spalancavo gli occhi che già mi mancava il fiato, ancor prima che un soffio di luce mi accecasse, e del suono era rimasta solo l'eco lontana nelle orecchie. Era come dormire in una vasca piena d'acqua e svegliarsi in apnea, con la sgradevole sensazione di aver smesso di respirare troppi minuti prima. E poi, ripreso fiato, per quel che serviva, la gola stretta e quell'ancestrale bisogno di acqua, ironia della sorte, la stessa che prima ti soffocava e poi ti seduceva.
    Era il mio buongiorno e, ormai, avevo dimenticato da quanto tempo.
    Erano giorni tutti uguali, uno dopo l'altro, dopo l'altro, dopo l'altro. Distinguevo il dì dalla notte solo per quel raggio di luce che, di prima mattina, faceva a gara con la sirena. Era tutto così fermo e ripetitivo che, col passare del tempo, avevo smesso anche di capire cosa fosse l'oggi rispetto al domani. C'era un solo perno: quel che era stato e che non era più e che mi tormentava come un'eco instancabile. Il resto, un'orbita perenne intorno a non so neppure cosa.

    Mi chiamavo Morpheus, avevo 22 anni. Avevo un cognome importante e famoso. Ho imparato ad odiarlo così presto che smisi presto di pronunciarlo se non per quando mi era esplicitamente richiesto.
    Sarei un numero, adesso, ma mi vergogno anche solo ad impararlo.
    Sono qualcosa nel mezzo tra il ricordo del mio nome e la menzogna del codice che mi hanno assegnato.
    «Tu non ascoltarli.»
    Il mio primo giorno di scuola mi fissavano tutti e non capivo perché. Sentivo i brusii serpeggiare intorno a me e gli sguardi sgomitare insolenti per studiare anche il più piccolo dettaglio del mio volto, l'espressione piena di vergogna che avevo stampata in faccia e che volevo stampare in terra, da quanto tenevo chino il capo, le orecchie tese ad ascoltare qualunque cosa avrei potuto biascicare con la voce rotta dal silenzio, mezza strozzata.
    «La gente, a volte, sa essere cattiva.»
    Ero sceso per ultimo dal vagone, trascinando il baule con tutte le mie forze e per farmi coraggio immaginavo fosse un destriero capriccioso da quant'era pesante e difficile da spostare, e stringevo la bacchetta nell'altra mano, come una spada valorosa e dal nome leggendario.
    «Ma tu sei...?»
    «Un cavaliere di nobile casata.»
    «E un vero cavaliere...?»
    «Un vero cavaliere... non teme neppure la lama del nemico.»
    Sulla barca tremai di freddo tutto il tempo.

    Del giorno in cui accadde ricordo un solo dettaglio: fu come se l'aria fosse svanita tutta d'un tratto. Per quanto mi sforzi, e nel tempo l'ho fatto innumerevoli volte, nient'altro affiora alla memoria se non quel senso di soffocamento che mi accompagna ormai da allora.
    Mi portai le mani al petto, ché lo sentivo schiacciato da un macigno venuto dal nulla e piantato sullo sterno, ma non c'era niente da spostare. Spalancai le palpebre e un attimo dopo ero in ginocchio senza sapere perché. Terrore. Sentii il cuore scoppiarmi nelle orecchie e prendersi la scena, come se gli altri suoni fossero evaporati, e poi pian piano, inesorabilmente, rallentare. Erano gli ultimi colpi, pensai. Adesso muoio e non so come, pensai. È così allora che si muore, pensai. E più pensavo, più strabuzzavo gli occhi e vedevo i miei compagni intorno a me fare lo stesso, dondolare come spighe al vento, cadere come alberi spezzati dalla tempesta, portarsi le mani alla gola, gemere asfissiati con quel poco d'aria che restava. Saremmo morti tutti, pensai.
    Che diamine, pensai.
    Sentii un colpo, quando svenni, ricordo come di una lancia infuocata aprirmi la fronte in quattro. Forse erano mattoni, forse era una pietra in mezzo al verde impallidito dei giardini d'autunno.

    La stanza era tutta uguale, ma almeno non faceva mai freddo. Imparai a non guardare più le pareti, perché non sembrassero volermi strozzare e inghiottire. Fissavo il pavimento, come il primo giorno a King's Cross, sull'Espresso, sulla barca, in Sala Grande ad Amestris, con quel vecchio cappello saggio che mi parlava sulla testa. Avevo scoperto che concentrarmi su una sola mattonella bianca alla volta era la stessa cosa che buttare giù i muri: non li vedevo più e dimenticavo pure quelli, così riuscivo a immaginare che tutta l'aria del mondo potesse entrarmi nei polmoni e darmi finalmente sollievo. Prima o poi sarebbe arrivata, me ne convinsi, era solo lontana.
    Prima o poi.
    E poi guardare in giù mi aiutava a non fissare la porta. C'è una porta da un lato e una finestrella su quello opposto, ma ne entrava solo luce fredda e non credo di aver mai visto cosa si nascondesse dietro tutto quel bianco.
    La porta, di tanto in tanto, scattava. E con la serratura, impetuoso cavalcava anche il cuore, l'aria si faceva più rarefatta, come la prima volta, e sentivo che avrei potuto morire ma non ancora, come se mi stessi affacciando su un baratro in equilibrio irreale sul ciglio, quando la paura di cadere è una tortura più velenosa della caduta stessa.
    La prima volta che entrarono urlai con tutte le mie forze e scalciai e mi dimenai. La stanza vorticò, le pareti si strinsero per davvero, ché ancora non avevo imparato a ignorarle, e le loro urla si confusero alle mie. Persino la stanchezza impallidiva dinanzi al terrore più nero, l'essere in una trappola senza scampo alcuno, da solo. Ma di forze non ne avevo molte e non ne ebbi mai più come prima di quel giorno maledetto. I muscoli perdevano vigore ogni giorno di più e anche stare in piedi, a poco a poco, era divenuta una fatica.
    Mi ritrovai solo, una guancia sul pavimento, il ferroso del sangue in bocca e il gelo che strisciava risalendo il collo. Nel silenzio potevo ancora sentire i loro bisbigli sinistri parlare di me ma la porta era chiusa e non vedevo nessun altro intorno.

    Regina aveva un cognome più ingombrante del mio ma lo portava fiera come una spilla luccicante al petto. Era una bambina smilza e pallida, con capelli paglierini e due occhioni grigi piantati sulla faccia come gemme sbiadite. Il mantello le stava addosso come su un attaccapanni e a stento le si vedevano le punte delle dita spuntare fuori dalle maniche.
    Sin dalla prima volta che la vidi, durante la cerimonia di smistamento, ebbi come l'impressione che il suo volto mi fosse familiare. C'era qualcosa di già visto nella sua andatura timida e al tempo stesso nobile ma ero piccolo e i miei ricordi non erano poi così tanti da poter confondersi: c'erano perlopiù emozioni, immagini nitidissime e immobili, ma le gote asciutte di quella bambina no, erano un passo più indietro, in una stanza in cui non potevo entrare. Sulla sedia del cappello se ne stette con le spalle strette strette, le mani piantate sulle ginocchia e dondolava i piedi come su un'altalena. È uno dei ricordi più nitidi che conservo, in un mare di desolata confusione, come se fossi ancora lì ma con gli occhi dei miei vent'anni. Perché ciò che ora brilla di straordinario, allora non lo fece. Tra bambini, d'altronde, essere bambini è la cosa più naturale del mondo.
    «Fuoco!»
    Strinsi le sopracciglia una contro l'altra: non sapevo neppure che nome avesse, la bambina, di che note suonasse la sua voce, o che odore spandesse dai suoi capelli, eppure seppi in un istante che quel vecchio cappello consunto aveva fatto l'errore più grande del mondo.

    Venivano a farci visita una volta ogni due o tre giorni.
    Ci toccavano, parlavano e parlavano e non capivo niente. Volevo solo urlare e mandarli via, perché i loro sussurri parevano maledizioni e i loro tocchi malocchi. E quando non mi toccavano sentivo i loro sguardi sulla mia schiena o su qualunque cosa mettessi tra quelli e i miei occhi.
    Il senso del tempo, però, svanì prima che potessi immaginarlo e i minuti, i secondi e le ore divennero monete di latta in un mercato deserto. Non c'erano lancette, non un ticchettio. Solo quell'effimero raggio di luce e la sirena oltre la porta, a volte prima, a volte dopo.
    Capii, in qualche modo, che sarebbe stata quella la mia nuova valuta: niente più giorni ma sirene.
    Nella stanza stavo steso perlopiù, affaticato com'ero, quando la fame d'aria sembrava alleviarsi e i respiri a metà avevano un gusto più profondo. Quando rantolavo, invece, spesso lontano da entrambe le sirene, cadevo sul pavimento e contavo i respiri. Pensavo che arrivando a mille qualcuno sarebbe venuto a premiarmi con una mano sulla bocca e una sul naso, per togliermi l'aria l'ultima volta.
    Era difficile mantenere il conto di quante sirene passassero tra una visita e l'altra, perché il sonno era sempre improvviso e pesante, una sentenza che calava sul mio corpo provato all'improvviso e, senza appello, lo condannava ad immobilità e incoscienza.
    Il resto del tempo pensavo, perché il silenzio mi aveva ucciso un senso e volevo rumore tanto quanto aria, o piangevo, o entrambe le cose assieme. A volte i ricordi e le immagini si facevano così confuse da terrorizzarmi, come se fossi legato in sella a un cavallo imbizzarrito. E piangevo e singhiozzavo, e più singhiozzavo più l'aria si faceva sottile e rada e avrei voluto soffocare una volta e per tutte, piuttosto. Finché tutto si faceva lontano ed era come se qualcun altro piangesse sulle mie guance coi miei occhi.
    Dimenticai anche che faccia avevo.

    Avevo sognato una rivolta, uniti sotto il vessillo della mia bacchetta spezzata. Ne conservavo i resti sotto il materasso: assomigliava a una matita rotta a metà, con un taglio in diagonale per quasi tutta la lunghezza e il legno vivo in vista, che a passarci un dito sopra una scheggia di castagno piantata nel polpastrello era un pegno certo. Non seppi mai come fosse arrivata lì e in quel modo, né dove fosse finita l'altra metà: era con me appena riaprii gli occhi per la prima volta fuori da Amestris. La mia durlindana leggendaria, spaccata come uno spadino di legno per principianti.
    Dalla rivolta, però, dovetti trattare fino a una fuga da ladruncoli, con molta fortuna e un gran dispendio di energie, le poche che avessi. Col fiato a metà, come da quel giorno maledetto, urlavo nei corridoi ma i respiri agonizzanti fecero più chiasso dei proclami e di quelli che mi correvano dietro e non potevo vedere. Sentivo le gambe saltare da un punto all'altro senza regola, il busto proteso in avanti come se potessi catapultarmi fuori di lì ancor prima che i piedi mi ci portassero. Pareva dovessi cadere in avanti da un momento all'altro, disperatamente scomposto com'ero. Ma, in fondo, che uscisse chiunque dalle stanze che mi scorrevano di lato mi importava il giusto: niente.
    Doveva essere lì, ma dove? Cercai Regina fino all'ultima porta, pronto a sputare il cuore per l'agitazione, e per ogni spiraglio che s'apriva e mi ingannava. L'avrei presa per mano e tirata via con me, prendendo ancora un po' di forza dall'universo, se fosse stato necessario, ché gliel'avrei restituita poi, più in là, non so bene quando ma certo che l'avrei fatto.
    Trovai solo la pioggia notturna di chissà che luogo prima dell'unica compagnia che avevo desiderato.
    Avevo sentito della resistenza, le voci correvano anche attraverso i muri, e sapevo che quel pezzo di bacchetta era il biglietto d'oro per la mia salvezza. Mi avrebbero trovato, riconosciuto e portato con loro.
    Provai con delle scintille, ma sentii solo un formicolio al braccio e i polmoni collassare come palloncini slegati. Ero fuori di me, mi avrebbero scoperto di certo.
    Pioveva, ma non c'era vento.
    Persino il buio profumava di vita, ma quell'aria agognata sfuggiva ancora e ancora.
    Ebbi freddo come sulla barca anni prima, e strisciai di cespuglio in cespuglio per non so quanto tempo. Non c'erano sirene per misurarlo, lì fuori, e l'inflazione dei respiri non li rendeva più affidabili, ormai. E quando mi parve che buttassi fuori più aria di quanta ne prendessi dentro, mi abbandonai lì dov'ero e chiusi gli occhi sull'erba fradicia, sotto lance d'acqua che sapevano più di inganno che di libertà.

    Chiamarono mio padre "il Gramo" e quella condanna calò sulla nostra casa prima che potessi ancora capire la differenza tra giusto e sbagliato e quella tra quest'ultima e ciò che sceglievano i miei genitori. Mi dissero che i maghi vivevano di superstizioni e di mistero, di leggi improbabili e scorciatoie nel futuro, ma che, dinanzi alla paura, cedessero alla stessa miscredenza di chi cinquecento anni prima li perseguitava e li cacciava per farne fiamme appestate dal peccato.
    Domandai cosa avesse fatto di sbagliato e perché me lo stesse dicendo. Prese le mie mani tra le sue, mi sorrise con gli occhi stanchi e la barba folta che gli nascondeva le labbra.
    «Nessuno sceglie di nascere.»
    Mi disse.
    «Così cerca di rifarsi scegliendo quando non morire.»
    Gli sorrisi anch'io, mi stava tenendo le mani, ma non avevo capito. Chiesi dov'era la mamma, allora, e il sorriso si allargò e gli occhi si fecero più stanchi. Mi strinse le mani più forte, come un ultimo abbraccio, poi le lasciò.
    La vita in Accademia era dura, pensai, e piena di lavoro per uno come lui. Lo immaginai nel suo ufficio che puzzava di rosmarino, pieno di carte e di conti, e di cattiverie urlate per lettera, di gente che voleva scegliere quando non morire, o qualunque cosa fosse, e che se la prendeva con lui perché forse aveva detto loro che proprio non potevano.
    Urlarono "gramo!" anche a me, perché le colpe dei padri ricadono sui figli quando ci sono gli dei di mezzo. Ogni volta era un colpo al cuore e uno sguardo in più donato al pavimento invece che all'orizzonte. Regina mi diceva di andarne fiero, invece, come lei ne andava di sua madre, che odiavano tutti più o meno per lo stesso motivo: le parole che scriveva non piacevano a nessuno.
    Mi fidavo solo di lei ma, in fondo, non ne ero troppo convinto.

    «Ferma, adesso. Così.»
    Apro gli occhi e vedo una porta.
    La porta.
    È socchiusa, ma ormai sono dalla parte sbagliata.
    Guardo in alto: sono arrivati e non posso fare niente.
    Non ho sentito la sirena, stavolta, non ho potuto fare niente.
    Mi tengono fermo, pancia a terra, mi bloccano gambe e braccia.
    Vorrei urlare ma ho troppo poco fiato, figurarsi scalciare.
    Li schianterei, ma ho mezza bacchetta e metà dei muscoli.
    E, comunque, non funzionerebbe più.
    «Molto bene, molto bene, tranquilla.»
    Giro il capo di scatto, batto il naso ma non m'importa. Sono due, tre, quattro.
    Sto piangendo le lacrime di qualcun altro coi miei occhi, ancora una volta, e non distinguo niente.
    Di chi parlano?
    Stringo le palpebre, come uno straccio zuppo, e la vista si fa più chiara.
    Il cuore fa un salto mortale, dimentico di respirare.
    Regina.
    «"Sertum" è "corona".»
    Chi ha parlato?
    «Regina!»
    Si voltano tutti, assieme al mio richiamo rauco. La voce mi vibra a fatica tra le costole e lo sterno.
    Tossisco come un appestato, mi agito.
    Ma Regina ha parlato con me, l'ho vista!
    Era qui, diamine, l'ho sempre saputo.
    «Cosa ha detto?»
    E perché non ho sentito la sua voce?
    Un altro sussulto, un altro respiro mancato.
    Dannazione uccidetemi.
    Vòltati, Regina, non guardarmi.
    Hai ancora quegli occhi spenti e i capelli color paglia.
    Le gote sono scavate, chissà come ti ha sfiancato quest'asma infinita.
    Sapessi come ha sfiancato me.
    Sei cresciuta, Regina, nonostante tutto.
    Nonostante la fame e i respiri a metà
    Ci hanno spezzato le bacchette e il futuro, Regina.
    Il Gramo, diamine se avevano ragione, aveva capito tutto.
    Ma questo è peggio della morte, Regina: è come esser nati senza poter mai vagire.
    È peggio di un incantesimo riuscito male: abbiamo perso quasi tutto, che è peggio che tutto.
    Le sorrido, mi sorride insieme, senza darmi il tempo di un anticipo.

    «Togliete lo specchio, disturba anche lei.»

    Silenzio.
    Spalanco gli occhi.
    «La mia corona.»
    Mentre portano via Regina assieme alla finestra, non ho più bisogno d'aria.
    Io non ho più respirato, da quel giorno.
    «Non sarebbe il caso di rispondere alle lettere del suo papà?»
    Io ho pensato più di quanto credessi.
    Morpheus.
    «Credo che sia molto preoccupato per lei.»
    Morpheus Laeddis.
    Piango le mie lacrime.
    Papà che mi stringeva la mano. La mamma non c'era. Non c'era più.
    Le lacrime di una Regina.
    Ma.
    «Io le corone non le so portare.»

    Morpheus Laeddis - aka Sertoria Eburneo, Regina Ellis - aka Sertoria Eburneo, Giulianus Eburneo, Andrew E. Laeddis
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    Illuminazione Finale



    Descrizione: il PG sa di essere un PG

    Prerequisiti: tutti i Talenti, utili e inutili

    Benefici: nessuno. Qualunque cosa faccia sfruttando l'intuizione, commette powerplay o metagame, quindi incorre in pesanti punizioni da parte del Tessitore.
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    Imparzialmente Tempesta
3 replies since 21/1/2013
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